Il 24 maggio del 2016 a Khartoum viene arrestato un giovane eritreo. L’accusa è di essere a capo della tratta degli esseri umani che tentano di approdare in Occidente. In realtà si tratta di un incredibile errore: a essere arrestata è la persona sbagliata. Può accadere, oggi, con tutte le tecnologie a disposizione di magistrati e investigatori, una situazione del genere? A quanto pare sì: questa storia che sembra assurda e che ancora non è risolta, ha inizio nell’ottobre del 2013, quando in un drammatico naufragio a Lampedusa perdono la vita 368 migranti.

Da allora e per anni, la procura di Palermo intercetta tutto quanto si muove intorno a un personaggio considerato «chiave» nell’odioso reato di traffico di persone. Si fa chiamare «Il Generale», ha fama di assassino, di malavitoso pericoloso per tutti, perfino per chi lo incontra casualmente. E a conti fatti lo sarà perfino per chi neanche lo conosce ma ne condivide solo il nome di battesimo, comunissimo nell’area di provenienza del Generale.

Da quell’ottobre 2013, il cerchio investigativo si stringe via via sempre di più, ma la procura di Palermo ha fretta, lo vuole catturare il prima possibile. L’indiziato sparisce per alcuni mesi, gli investigatori se ne accorgono analizzando l’attività del suo profilo Facebook. Pensano che il Generale gli sia sfuggito da sotto il naso. In realtà il boss è in carcere a Dubai, ma la procura non lo sa. Eppure, gli investigatori italiani hanno fama di grandi esperti: a livello europeo hanno portato tutto il know how in fatto di tecniche investigative apprese durante la lotta alla mafia. Intercettazioni, uso dei pentiti e poi carcere duro, sono gli strumenti nelle mani dello Stato contro le organizzazioni criminali.

Il Generale – infatti – era stato agganciato: si erano ricostruiti i suoi legami di famiglia, gli spostamenti, le attività della moglie, dei parenti. Infine, viene arrestato. Ma in realtà non è lui, bensì un pastore eritreo, suo omonimo. L’uomo finito nelle maglie della procura italiana non è Medhanie Yedhego Mered, bensì Medhanie Berhe, uno che al Generale neanche assomiglia fisicamente – e saranno tanti a testimoniarlo, in Italia e all’estero.

Così, quella che doveva essere la conclusione di un’indagine diventa l’inizio di un’altra storia che Lorenzo Tondo, giornalista del Guardian, racconta adesso in Il Generale (La nave di Teseo, pp. 148, euro 17,00). Di questa vicenda Tondo scrisse anche sul manifesto, provando a dipanare una matassa che ben presto sarebbe stata registrata a livello mondiale.

Ma nonostante prove e buonsenso mettano in dubbio l’intero impianto accusatorio, la procura italiana tiene duro, trova escamotage e non si cura di quanto accade intorno alla propria inchiesta: ad esempio il fatto che il Generale anziché essere in carcere a Palermo, ricomincia i suoi traffici. Perfino quando a Palermo arriva la madre di Medhanie Berhe, non basta; il dna non dovrebbe lasciare alcun dubbio sull’errore commesso. Ma la procura non si smuove. E a questo punto

Lorenzo Tondo, reporter, diventa egli stesso parte di questa storia, seguito da personaggi loschi e osteggiato dai magistrati.

Nel Generale, però, non c’è solo la storia di due persone, perché la grande cornice che costituisce l’ambientazione della storia, purtroppo, è qualcosa di ben più tragico e collettivo. Tondo deve affrontare la brutalità del traffico di esseri umani, la situazione di un paese, più di altri la Libia, diventato crocevia di affari disumani: «Dalla morte del colonnello Gheddafi, nel 2001, gli interessi degli smuggler e quelli delle milizie convivevano e si intrecciavano sulla pelle dei migranti, in un lembo di terra che andava da Zuava fino alle coste di Misurata. Violenze e stupri perpetrati dai miliziani nei confronti dei profughi detenuti non erano di certo un segreto in Libia, come non lo erano dall’altra parte del Mediterraneo».

O ancora, Tondo è costretto ad analizzare il modus operandi dei trafficanti, sempre più astuto e sempre più in grado di adattarsi alle leggi dei paesi-obiettivo dei migranti: «Con una pistola puntata alla tempia, e a volte torturati più degli altri, i migranti venivano costretti a guidare i gommoni e, una volta arrivati a destinazione, finivano inevitabilmente in carcere, capri espiatori di una legge che, per giustificare l’ingresso illegale nelle acque territoriali di centinaia di migranti, aveva bisogno di individuare almeno un responsabile». In tutto questo, però, Medhanie Berhe sembra essere un’ulteriore vittima: in carcere, rannicchiato a terra «riprende a contare un’altra alba».