Lo scheletro di un villaggo abbandonato, lande nude e monotone che si stendono a una altitudine di milleduecento/milletrecento metri. Unica specie registrata, la lavanda selvatica. La malinconia attanaglia il camminatore che va alla scoperta di quella terra remota, sperduta nella Provenza. Tracce umane antiche, rovine e una fonte disseccata sono le uniche «presenze» da rilevare in quel paesaggio di desolazione. Ma Jean Giono, scrittore e poeta francese autodidatta (nato nel 1895, da una stiratrice e un calzolaio, e morto nel 1970), amava Rousseau e la natura: non si scoraggia e prosegue la sua passeggiata. Fa bene perché i suoi passi testardi lo condurrano all’incontro di una vita. È un semplice pastore («mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. Lo presi per un tronco d’albero solitario») che gli offre la sua borraccia per dissetarsi. Nascerà così quel piccolo capolavoro letterario che è L’uomo che piantava gli alberi, apparso per la prima volta nel 1953 e ora riproposto in una nuova versione da Salani, con la prefazione di Franco Tassi, una nota sull’autore di Leopoldo Carra e le illustrazioni di Simona Mulazzani (pp.51, euro 8). Il libro diventò anche un cortometraggio d’animazione – era il 1987 e alla regia c’era Frédéric Back – che si aggiudicò un oscar come miglior cartone.

In una bella giornata di giugno, dunque, Jean Giono divide un pasto con quel pastore che se ne sta a un giorno e mezzo di distanza da altre comunità. E si accorge che, oltre a portare al pascolo il suo gregge, quell’omino modesto ma ben curato nell’aspetto, con i vestiti rammendati meticolosamente e che si chiama Elzéard Bouffier, deposita ghiande in buchi che procura con un lungo ferro: vuole veder crescere querce in un terreno che è di tutti, ma che nessuno reclama.
La sua attività domestica principale era proprio quella di scegliere le ghiande più propizie a una «fioritura»: lo faceva da tre anni e già erano spuntati ventimila alberi in luoghi un tempo privi di qualsiasi attrazione.

Alzéard era vedovo e aveva perso il suo unico figlio. Con i suoi ricordi stretti dentro di sé, studiava faggi e betulle, sognando di popolare il suo mondo con alberi bellissimi. Pratica che non abbandonò neanche durante la prima guerra mondiale. Casomai, lasciò stare le pecore: rovinavano le sue piante e scelse di allevare api. Giono tornò a trovarlo, molti anni dopo, e poté immergersi in un bosco di querce, lì dove prima c’era solo aridità. Tutto si era trasformato, era anche riapparsa l’acqua in letti secchi di fiumi. Nel 1935 quella foresta caparbia destò l’interesse di delegazioni governative e conquistò il vincolo di tutela. Resistette poi a una seconda guerra, così come il suo «padrino» Bouffier, che raggiunse in serenità la quarta età per morire, nel 1947, in un ospizio.

Giono, invece, nonostante avesse aiutato i comunisti durante la Resistenza e fosse vicino a Breton e stimato da Gide, non ebbe una storia facile in Francia: nel ’44 fu accusato di collaborazionismo e imprigionato. L’uomo che piantava alberi, scritto con uno stile asciutto e insieme poetico, è il manifesto di un ritorno etico alla natura, che conserva fra le sue righe l’invito accorato al pacifismo.