A ottenere la dichiarazione di incostituzionalità della norma sul piano periferie, aprendo così la strada all’emendamento inserito il 6 agosto scorso nel decreto milleproroghe che congela alcuni fondi e adesso provoca la rabbia di molti sindaci e del Pd che pure l’ha votata al senato, sono stati il presidente leghista del Veneto Zaia che ha presentato ricorso alla Corte costituzionale e l’avvocato della regione Antonini che venti giorni fa maggioranza e opposizione hanno promosso a giudice costituzionale.

La polemica politica travolge tutto, e solo ieri il presidente dell’Anci Decaro (Pd) ha trovato una soluzione da proporre al governo per rimediare alla sentenza della Consulta: convocare una conferenza unificata stato-regioni per ottenere il via libera dei governatori sul riparto dei fondi destinati nel 2017 agli interventi sulle periferie. Perché la Corte costituzionale nel marzo scorso ha sanzionato proprio questa mancanza di concertazione, dal momento che il governo (Renzi prima, Gentiloni poi) ha destinato fondi ai comuni per il risanamento urbano, tralasciando che la Costituzione assegna alla legislazione concorrente con le regioni (articolo 117) il «governo del territorio». Piccolo particolare: una conferenza unificata straordinaria, convocata proprio per mettere agli atti il concerto delle regioni che un’altra legge del governo Renzi si era dimenticata di prevedere, si è tenuta appena due giorni fa, mercoledì. Nelle stesse ore in cui il Pd si accorgeva della gravità della norma che aveva votato (assieme alla maggioranza e a tutte le altre opposizioni) e strillava sul furto alle periferie.

Adesso il danno è fatto, dei circa due miliardi stanziati negli anni dal centrosinistra per i piani periferie, e assegnati a 220 progetti comunali, ne restano disponibili circa 500 per i primi 24 (più antichi nel tempo e collegati a un bando del 2016 sul quale il prescritto parere delle regioni era stato acquisito).

Il governo sostiene che i fondi sottratti ai progetti per le periferie – che in molti casi erano stati già messi in cantiere dai comuni che avevano per questo anche impegnato delle risorse e adesso minacciano di citare l’esecutivo per danno erariale – saranno comunque redistribuiti, ma non ai 96 comuni capoluogo adesso esclusi bensì a tutti i quasi ottomila comuni italiani. Attraverso un fondo che recupera parte della somma risparmiata – neanche tutta, ma solo un miliardo su un miliardo e mezzo – e la distribuisce in quattro tranche fino al 2021. Si tratta però solo di una promessa, perché l’emendamento al decreto milleproroghe presentato dalla Lega, condiviso dal governo e votato da tutti, si limita a prevedere l’apertura di un fondo presso il ministero dell’economia. Per sapere come sarà possibile accedervi e come sarà ripartito bisognerà aspettare probabilmente la prossima legge di bilancio, anche se l’intenzione dell’esecutivo è quella di sbloccare gli investimenti nei comuni «virtuosi» che presentano cioè i bilanci in nero; si parla di «favorire gli investimenti delle città metropolitane, delle province e dei comuni da realizzare attraverso l’utilizzo dei risultati di amministrazione degli esercizi precedenti».

Nel frattempo, di fronte alle proteste di sindaci (principalmente, ma non solo dei partiti di opposizione) il governo ha promesso che troverà il modo di rifinanziare i bandi per le periferie a partire dal prossimo anno. E il vice presidente del Consiglio Di Maio, fingendo di non capire e giocando sul fatto che parte delle somme sono nominalmente ancora destinate ai comuni, ha detto: «I sindaci protestano? Siamo con loro. Questa norma ci serve proprio per andare incontro alle loro esigenze».