Ieri Michel Barnier era di nuovo a Londra per riesumare i negoziati su Brexit con la controparte britannica, David Frost, colloqui su cui incombono la scadenza del 31 dicembre e relativo spettro del no-deal.

I problemi sul tavolo sempre gli stessi: il rischio di un confine fisico in Irlanda del nord, una competitività commerciale «equa» fra le parti a divorzio consumato e le quote del pescato nel Mare del Nord.

Finora Downing Street ha continuato nella tattica del negoziare minacciando di andarsene e continuerà prevedibilmente a farlo. Ma con un nuovo inquilino alla Casa Bianca, gli equilibri delle trattative sono ovviamente mutati.

DIVENTA INDISPENSABILE interrogarsi su cosa significhi l’avvento di Joe Biden alla guida degli Stati Uniti per il Regno Unito del pasticcione Johnson, e per l’atlantismo in generale, simboleggiato efficacemente in quella fantomatica «special relationship» fra il continente nordamericano e l’isoletta che ne era – un tempo lontano ma non troppo – il padrone europeo.

Soprattutto quando, e in barba ai nomi, l’affinità fra i due si manifesta, oggi, soprattutto in un catastrofico deficit di unità. Vista l’età psicologica prepuberale, Donald Trump non se ne andrà dalla stanza dei giochi senza romperne il più possibile.

Ma ora che lo studio ovoidale si svuota della sua fellonia galoppante per riempirsi dell’agognata «normalità» dell’uomo di apparato Biden, Johnson – le cui differenze da Trump, attenzione, sono più delle analogie – deve precipitosamente cambiare rotta.

«Boris» si era ufficialmente congratulato già sabato con Biden, prima che Trump (non) ammettesse la sconfitta, in una mossa che equivaleva sostanzialmente a scaricarlo, in perfetta linea con il proverbiale abbandono della nave dai topi prima dell’affondamento.

Ma questo non è certo un gesto in grado di compensare i vari giri di valzer che lo hanno visto piroettare con il «populista» attualmente barricato nella Casablanca mentre strilla di brogli elettorali.

I PROBLEMI FRA I DUE sono tanti. A parte le differenze di personalità e culturali – ricco cattolico irlandese medioborghese il primo, aristo-cicisbeo imperialista anglicano il secondo – e il casuale razzismo di Johnson, che aveva stigmatizzato «le origini keniote» dell’allora presidente Obama, reo di aver rimosso un busto di Churchill dallo studio ovale quando Biden ne era il vice, quest’ultimo è di fronte a un passaggio delicato: non può accelerare verso un no-deal nelle negoziazioni su Brexit.

Anzi, è sotto pressione perché la legge sul mercato interno attualmente in discussione ai Lords – che permetterebbe alla Gran Bretagna di violare gli accordi con l’Ue e introdurre un confine fisico tra «le due Irlande», re-innescando la guerra civile superata dal Good Friday Agreement – sia rivista. Perché al cattolico irlandese Biden, così com’è risulta prevedibilmente sgradita.

USA E UK, LE DUE principali società di supermercato d’occidente, sono anche quelle che hanno reagito più scompostamente alle scosse della Grande depressione post-2008: una eleggendo un celebre bancarottiere egomaniaco e bipolare (non in senso politico) come proprio leader, l’altra staccandosi dall’Unione Europea dopo aver rifilato con successo la panzana autarchico-imperialistica ai propri cittadini.

Entrambe esprimono una forma di neoisolazionismo «anglosassone», attraverso cui il capitalismo punta a superare l’impasse neoliberale. Naturalmente sono anche teatro del tentativo di mantenere una supremazia bianca e androcentrica sul mondo travestendola da canonica lotta di classe: un espediente attraverso cui la destra radicale ruba terreno all’estremo centro usando parte dell’armamentario ideologico della sinistra radicale.

L’elezione di Biden rappresenta un tentato correttivo a questa tendenza. Biden è un politico «classico» succeduto allo pseudo-antipolitico Trump che cercherà – naturalmente invano – di mandare gli orologi indietro di quattro anni. Non ultimo perché ha vinto per miracolo. Ma per Johnson, la cui incompetenza è divenuta pandemicamente visibile, la musica è comunque cambiata.