Phnom Penh è una città caotica. La perla dell’Asia, dicevano i francesi, quando ancora le rive del Mekong non avevano subito la selvaggia edificazione novecentesca e le maestose ville coloniali si alternavano alle splendide case Khmer rialzate su palafitte, nel clima pacifico che regnava lungo quel magico fiume. Oggi un turbinio di motorini sfreccia lungo le sue trafficate vie. Templi e pagode si affacciano sul vecchio quartiere francese che un po’ decrepito, sembra una testimonianza da museo del passato della città. Quel passato che vagamente ritorna nel brulichio delle sue vie centrali, dove negozi di ogni sorta smerciano qualsiasi cosa in perfetto stile asiatico, dove i tuc-tuc sfrecciano a fianco delle Jaguar più moderne, dove le case coloniali sono ancora coloniali, possedute dai numerosi residenti bianchi, lungo strade ordinatissime e opulente proprio a fianco dei quartieri più poveri che invece cadono a pezzi. Si può comprare tutto qui, droghe alcool, donne, negozi, case e interi quartieri, rigorosamente in dollari, perché la moneta locale non l’accetta nessuno. Dollari. E tutte le strade del vizio e del profitto saranno spianate.
Terra di contraddizione Phnom Penh, capitale dello stato più povero del Sud Est ma anche quello più ricco di possibilità di fare, a conferma del mito inquietante che aleggia sulla Cambogia contemporanea: il far-west del sud-est asiatico. Qui si può fare tutto – conferma un’agiata coppia francese di architetti -Non servono permessi e non esistono tasse. Vuoi aprire un bar? se hai i dollars, tempo qualche ora e puoi iniziare l’attività. Una città di infinite possibilità (sopratutto per chi i soldi già li ha, vien da pensare, con un poco di malizia ), dove non c’è una precisa morale da rispettare. Dove tutto scorre relativamente placido.
Il passato sembra vago. Il peso del passato sembra svanito. La tragedia recente dei mitissimi e accoglienti cambogiani contemporanei, non assale i visitatori. Va cercata. Bisogna volerla vedere. È necessaria la volontà di sentirla. E lei arriva, la tragedia, arriva puntuale. Come un fulmine, ci ricorda dove siamo. Nell’unico paese al mondo dove nell’arco di tre anni una persona ogni 4 fu uccisa.
1975-1979 s-21
Il complesso di edifici è nascosto da un recinto con cancello. Superato il botteghino che vende i biglietti, ci si ritrova nella prima corte. Le costruzioni sono disposte a ferro di cavallo, sono basse, in stile coloniale, ospitavano infatti fino al 1975, una scuola statale. Ogni luogo del museo-prigione ha un numero ben visibile a fianco. È sufficiente comporlo sul telecomando che viene fornito in prestito ai visitatori e nelle cuffie i racconti cominciano…
A partire dall’esterno si viene guidati attraverso la grande prigione, da una voce (nel nostro caso italiana) che si farà fatica a dimenticare poi. Ogni più piccolo dettaglio di s-21 non è stato toccato, lasciato lì dove è stato trovato nei giorni di quel fatidico 1979, anno della liberazione vietnamita della Cambogia. L’esperienza, che può anche essere traumatica, è quella di entrare – letteralmente, anima e corpo – nella storia di uno dei più tremendi luoghi di morte del ‘900.
I khmer rossi hanno ristrutturato nel 1975 la scuola per ospitare moltissimi detenuti politici (i cosiddetti «controrivoluzionari», che in realtà si rivelarono poi semplicemente cittadini. Il progetto folle di Pol-Pot era proprio quella di sterminare tutti i colti, tutte le menti metropolitane per creare uno stato agricolo di ignoranti asserviti). La ristrutturazione ha aggiunto le barre di ferro alle finestre e ha creato in alcune aule delle micro celle di 2 mq per ottimizzare lo spazio. Ogni piccola cella prevedeva una catena ancorata al suolo a cui venivano fissati i piedi del detenuto. C’erano poi delle stanze comuni per i prigionieri più ribelli. Qui una lunga barra orizzontale da cui pendono decine di catene e manette circolari, divide a metà lo spazio. I detenuti venivano assicurati alla barra a una distanza di pochissimi centimetri l’uno dall’altro. Altre grandi aule senza celle erano invece le ben note sale tortura. In una di queste stanze si vedono alla parete delle grandi foto in bianco e nero che documentano lo stato del luogo, il giorno della liberazione. Si vede un uomo bruciato vivo su un letto di metallo. Si abbassano gli occhi e si vede quel letto di metallo, lì fermo, solo nella stanza, nella stessa identica posizione. Gira la testa, non ci si sente bene, in quella stanza scolastica spoglia, con i muri color verdino chiaro, dove negli anni sessanta i bambini alzavano la mano per rispondere alle domande della maestra e pochi anni dopo, si sterminava e si torturava, in nome del comunismo. Tre anni e un numero ancora non chiaro di morti (2 milioni, 3 milioni?) Non si sa perché si continuano a ritrovare fosse comuni sotterrate ovunque, in Cambogia.
Lungo le scale che portano ai piani superiori si notano macchie rossastre negli angoli. Cos’è? a una delle guide che si aggirano «Blood» . Sangue rappresso. Per terra, macchie. È davvero possibile che sia ancora lì? Non è importante. E poi che cosa potrebbe essere d’altro?
Sui muri invece ci sono spesso numeri, strisce, scarabocchi, alcuni disegni incisi nelle celle. Altre scritte recitano criptici consigli per sopravvivere alle regole ferree della prigione. Come la regola numero tre: Non fare il finto tonto, perché sei un controrivoluzionario. Oppure la più temuta, la numero sei: Non devi assolutamente piangere mentre ricevi l’elettroshock e le frustate.
In altre aule di S-21 sono state allestite esposizioni davvero ben fatte, dove i documenti e le numerose fotografie ci raccontano i volti dei carnefici e dei prigionieri. Quei carnefici come il temibile «compagno» Duch, capo della polizia politica e direttore di s-21 che dietro gli ordini del partito, fu responsabile delle più terribili torture commesse qui. Come la morte per deviscerazione delle donne, con lo scopo di far soffrire e nello stesso tempo di «risparmiare» proiettili. Duch è stato ritrovato per caso da un fotoreporter nel 1999 in un piccolo paesino al confine con la Thailandia. Faceva l’insegnante di inglese. Oggi è in carcere accusato di crimini contro l’umanità. E poi ecco comparire i volti delle vittime, troppi per poter starci tutti. Insegnanti, intellettuali, bambini figli di «borghesi» (a s-21 massacrarono 2000 bambini), artisti, semplici bottegai di Phnom Penh, chiunque avesse un’istruzione. Piccoli ritratti in bianco e nero montati insieme. Disegni, lettere, testimonianze. E una grande mappa della Cambogia, fatta con veri teschi umani rinvenuti nelle fosse comuni.
Si esce di nuovo fuori. Una leggera brezza riporta al presente e ricorda di respirare. Un respiro profondo dopo averlo trattenuto troppo a lungo. Camminando verso l’uscita, si notano due bancarelle piene di libri e documenti. A fianco di ognuna un signore di un’ottantina d’anni accompagnato da una ragazza più giovane.
«Hallo. Who are you?» chiedo «I’m Chum Mey one of the seven survivors of s-21 and this is my book» risponde lui non senza un sorriso accogliente. «May i make a portrait of you sir?». tentando di dirlo il più delicatamente possible in scalcagnato e nervoso inglese. E il signor Chum Mey, guardandomi ancora sorridendo: «Yes, but just one».