In seguito alla creazione della Biennale di Venezia nel 1895, paesi e architetti sono stati invitati a costruire i primi padiglioni stranieri, che erano stati scelti fin dal 1907. Una selezione questa che rifletteva l’ordine monarchico del tempo. Più di cento anni dopo, tutto il mondo della cultura si riunisce a Venezia ogni due anni e si adatta alla sua struttura antiquata. Straordinariamente, la Biennale ancora comprende solo 28 padiglioni nazionali ai Giardini, costringendo tutti gli altri paesi a cercare, dentro al labirinto di Venezia, uno spazio in affitto a costi vertiginosi. È vero che i paesi possono affittare uno spazio in qualche altro posto per far esporre i loro artisti. Ma cosa ci racconta l’architettura dei Giardini? Ribadisce chiaramente un vecchio, obsoleto ordine che non corrisponde alla realtà attuale. E per un artista africano che si trovi a visitare i Giardini, per esempio, la totale assenza di un singolo padiglione dedicato a un qualsiasi paese africano comunica in modo evidente ciò che il cosiddetto mondo occidentale pensa dell’Africa o della sua cultura: semplicemente che non esiste.
Il mio progetto consiste nel creare, all’interno del Padiglione del Cile (uno spazio affittato all’interno dell’Arsenale), una utopia in cui sono stati abolite le vecchie gerarchie globali. È un invito poetico per indurre a ripensare il sistema dei padiglioni nazionali. Con Venezia, Venezia cerco di suggerire che l’attuale modello della Biennale è un fantasma che viene dal passato. Così, il Padiglione del Cile trasforma se stesso in un terreno concettuale di nuove possibilità, offrendo l’opportunità storica per una rinascita. I visitatori diventano testimoni di un nuovo ordine ricreato, un’utopia che riflette l’estrema fluidità della cultura internazionale del mondo contemporaneo, liberato dalla rigidità arcaica delle antiquate strutture utilizzate per la Mostra.

[do action=”citazione”]Proprio come la ricostruzione seguita alla guerra, la creazione di un nuovo ordine è qualcosa di realizzabile, per la Biennale e per l’Italia[/do]

 

Mettere in discussione il modello di Venezia significa riconoscere che viviamo in un mondo differente da quello del 19/mo secolo. In dialogo con l’incarnazione di una fantasia storica è poi la rappresentazione di un altro momento culturale: un lightbox sospeso del 1946 contiene la fotografia in bianco e nero di Lucio Fontana mentre visita il suo studio di Milano in rovina, dopo il suo ritorno dalla natia Argentina, alla fine della seconda guerra mondiale. Nel richiamare alla mente il passato, questa immagine fa scattare un flashback: riporta ad un mondo che emergeva dal disastro del conflitto, lo stesso che anche la cultura subì così severamente. Tuttavia, nel dopoguerra, molti artisti italiani – tra cui, per le arti visive Fontana, per il cinema Rossellini, Visconti e De Sica, Moravia, Pavese e Ungaretti per la letteratura e tanti altri straordinari intellettuali hanno dimostrato di essere in grado di superare anni di isolamento e di devastazione e di saper reintrodurre la cultura italiana nel mondo. Poco tempo dopo, emerse un altro eccezionale gruppo di artisti: Antonioni con il suo cinema, Bertolucci e, naturalmente, Pasolini. In più, artisti come Pistoletto, Boetti, Calzolari e innumerevoli altri illuminavano la scena culturale dell’Italia e del mondo.

La cultura, infatti, può influenzare il cambiamento. Venezia, Venezia rivela una città ancora ossessionata dai suoi fantasmi che includono non solo i conflitti bellici del passato e i loro leader, ma anche una defunta architettura. Proprio come la ricostruzione seguita alla guerra, la creazione di un nuovo ordine è qualcosa di realizzabile, per la Biennale e per l’Italia. Lucio Fontana e gli altri ci hanno insegnato che le possibilità di trasformazione e progresso sono reali. Venezia, Venezia è un malinconico invito a pensare come le istanze contemporanee, composte dalla nuova complessità delle reti globali, possano essere adeguatamente rappresentate su un palcoscenico planetario. Viene esaminata la capacità di una struttura rigida e fondata sulla divisione – quale è la Biennale attuale – di adattarsi allo stato transnazionale della cultura, sottolineando l’importanza della diversità e lo straordinario potenziale di una democrazia culturale.

Sono stato invitato a partecipare alla sezione Aperto della Biennale di Venezia nel 1986. È stata la prima volta in cui un artista dell’America Latina veniva chiamato a far parte della Mostra internazionale. Sarò sempre molto grato a Achille Bonito Oliva e a Thomas Sokolowski per quell’invito che cambiò la mia vita. Il titolo della rassegna già diceva tutto: Aperto. Era una generosa apertura della Biennale ad artisti come me che, fino ad allora, erano considerati «periferici». Tutto ciò era avvenuto tre anni prima di Magiciens de la Terre, la mostra che, a detta di molti osservatori, mutò il volto dell’arte contemporanea.

Una mattina, durante l’installazione del mio lavoro in Arsenale, ho cominciato a pensare all’architettura dei Giardini e a come questa non riflettesse il mondo in cui vivevo. Credo Venezia, Venezia sia nata in quel momento preciso.