Che il governo Letta debba “durare” è divenuto il ceterum censeo degli attuali patres patrie. E c’è da scommettere che, a parte improbabili ancorché agostanamente ventilati colpi di coda di un Berlusconi finalmente declinante, esso durerà: e non solo durerà per l’intera legislatura, ma ci sarà, c’è da starne certi, una componente maggioritaria all’interno dei due principali schieramenti pronta a magnificare le virtù della formula che lo sorregge, col fine di riproporne la validità anche in futuro. È infatti nella più radicata tradizione delle classi dirigenti italiane quella di avvalersi di un “partito unico” di governo, il quale storicamente ha avuto forme diverse, mantenendo tuttavia fissi alcuni caratteri: l’esclusione del potere delle classi popolari e dei loro rappresentanti; la considerazione dello Stato come terreno di spartizione ai fini del mantenimento del consenso; l’esclusione di determinate sfere dell’agire politico (su tutte: la politica estera) dal novero di ciò che in democrazia può essere discusso; la diffidenza verso il radicarsi dei partiti come strumenti appunto di “parte”, di rappresentanza di interessi reali contrapposti, a meno di una loro degradazione a strumento di lotta per bande.
Agli albori della vicenda unitaria, il censo ristretto e un sistema elettorale che largamente favoriva la corruzione e la rappresentanza non degli interessi diffusi ma delle clientele locali, uniti alla feroce repressione del movimento operaio e contadino, garantirono il predominio del partito unico. La lotta politico-parlamentare era scontro di interessi localistici. Il culmine di questa situazione si ebbe col celebre “colpo di Stato della borghesia” di fine ‘800, favorito dalla repressione dei Fasci siciliani da parte di Crispi. In età giolittiana il cambio di metodo fu rilevante, ma non la sostanza. La corruzione continuò, le scelte di politica internazionale continuarono ad essere appannaggio di una ristretta cerchia di persone e interessi. Ma il movimento operaio non lo si potè più semplicemente tenere ai margini della legalità: di qui l’allargamento del suffragio, ma anche il tentativo, riuscito anche per i limiti intrinseci del Psi turatiano, di divisione della rappresentanza degli interessi popolari (compromesso corporativo tra industriali del Nord e operai occupati nella grande fabbrica, denunciato da Salvemini, Gramsci e gli azionisti).
Di fronte ad una esplosione di richieste sociali e democratiche quale si verificò nel primo dopoguerra, lo schema non resse, e la risposta delle classi dirigenti fu quella tragica del fascismo: facile ritrovare nel regime mussoliniano le caratteristiche tipiche del partito unico dei gruppi dirigenti italiani, elevate questa volta a sistema – a regime, appunto. Indubbi elementi di crisi di uno schema siffatto furono introdotti dalla sfida lanciata dalle sinistre (anche di matrice laica), oltre che da parti consistenti dello stesso partito cattolico, alle classi dirigenti tradizionali a partire dalla Resistenza, e poi, in varie modulazioni, nel corso dell’intera vicenda repubblicana. E tuttavia la Dc e il sistema di potere solidificatosi attorno ad essa resse più o meno alla sfida: il partito unico, con varie gradazioni trasformistiche, resse per un cinquantennio. Ma le concessioni che esso dovette fare all’avversario furono notevoli e tali da cambiare in profondità la fisionomia del paese: se non sovvertiti, i rapporti di potere nella società italiana furono equilibrati, e la natura – la qualità, verrebbe da dire – della lotta politica se ne giovò ampiamente.
Con l’89 tuttavia vennero a maturazione una serie di elementi che già covavano nella società italiana – e che la sinistra non aveva saputo scorgere a tempo. La “riscossa proprietaria” fu tesa a chiudere una fase di storia del paese in cui il ruolo del partito unico delle classi dirigenti fu, se non soppiantato, quanto meno messo in questione. Il cambio di paradigma fu facilitato, oltre che da ragioni inerenti lo sviluppo di tutte le società occidentali, anche dalle scelte soggettive della sinistra politica.
Se si distoglie lo sguardo dai macroscopici eppur per certi versi fuorvianti tratti anomali della vicenda politica italiana in età berlusconiana, non si può non prendere atto della sostanziale subordinazione di entrambi gli schieramenti ai dettami della destra tecnocratica rinsaldatasi al potere in tutto l’Occidente a partire dai primi anni Novanta. Il ventennio berlusconiano nasconde cioè un evidente paradosso: proprio la tappa della nostra storia politica contrassegnata finalmente da un meccanismo di alternanza, ha visto in realtà la maggiore convergenza tra le forze politiche opposte attorno alle risposte che occorresse dare ai problemi del paese. Il partito unico della classi dirigenti si è dispiegato, nel senso che ha racchiuso al suo interno tutti i termini e il senso stesso dell’agire politico, per poi scindersi in due schieramenti che agiscono all’interno dello schema tracciato dallo stesso partito unico – i cui dati nuovi vanno individuati nella sua extraterritorialità e nella sua irresponsabilità democratica.
Con caratteristiche diverse, tuttavia il governo Monti prima e quello Letta poi sono le espressioni più pure di questo schema.