I numeri che circolano negli ambienti liberali danno il partito Russia Unita, legato al capo del Cremlino, Vladimir Putin, e al suo sistema di potere, al 48%; i comunisti di Gennady Zyuganov attorno al 17; i populisti dell’Ldpr vicino all’8; e quelli di Russia Giusta al 7%.

Naturalmente queste previsioni andranno confrontate con i dati ufficiali che le autorità russe cominceranno a fornire già nelle prossime ore, dopo il fine settimana che ha visto milioni di cittadini al voto per stabilire il nuovo corso della Duma. Sono molti, tuttavia, a prenderle sul serio, e non solo fra i liberali, come dimostra un commento a urne ancora aperte proprio di Zyuganov sulla possibilità che le elezioni siano seguite da proteste di massa: «Un russo su due è pronto a scendere in strada», ha detto il leader dei comunisti, che ha citato, poi, le recenti manifestazioni di dissenso a Mosca e San Pietroburgo organizzate, a dire il vero, dai sostenitori di Alexei Navalny dopo la condanna alla colonia penale.

Zyuganov e Navalny hanno ben poco da spartire dal punto di vista politico: uno rappresenta la Russia santa e militarizzata, l’altro la rivolta contro la classe dirigente, eppure in queste elezioni hanno finito per trovarsi incredibilmente vicini. Chiuso in carcere nella città di Vladimir per scontare una pena di tre anni e mezzo, Navalny non ha potuto prendere parte alle elezioni.

Oggi il suo partito è tecnicamente fuorilegge, molti dei collaboratori si trovano all’estero, ma questo non significa che si siano tenuti alla larga dalla campagna. Per settimane hanno analizzato i sondaggi di ogni singolo collegio e hanno proposto agli elettori di mettere da parte il voto di appartenenza e di optare per quello intelligente, concentrando le preferenze sul candidato che ha più possibilità di successo contro Russia Unita. Per assurdo la strategia studiata da Navalny potrebbe portare decine di migliaia di voti a Zyuganov senza che questi abbia dovuto muovere un dito, dato che i comunisti contenderebbero 137 collegi al partito di governo.

Questa tendenza è forte nelle province dell’est, in particolare nelle regioni dell’estremo oriente, in cui le capacità di Russia Unita sembrano gradualmente esaurirsi. Per mesi migliaia di cittadini hanno protestato ogni giorno a Khabarovsk contro l’arresto del governatore locale, Sergei Furgal, che apparteneva all’Ldpr. A Yakutsk, la capitale della Repubblica Sakha, Russia Unita ha già ricevuto una clamorosa sconfitta alle amministrative del 2018, quando a vincere è stata Sardana Avksenteva di un partito semisconosciuto chiamato Rinascita Russa.

In queste due realtà pesanti per l’economia federale il governo può cadere ancora. Così, nel tentativo di rispondere ai segnali di malcontento, la Siberia è tornata al centro di piani di sviluppo a lungo termine che prevedono investimenti miliardari. L’obiettivo è costruire nuovi centri collegati fra loro, che permettano un migliore utilizzo delle risorse naturali, ma il piano appare ancora alle fasi preliminari, e poco o nulla serve a quella enorme parte della Russia che vive in condizioni parecchio distanti rispetto agli standard delle grandi metropoli in termini di salari, di infrastrutture, di servizi e in definitiva di prospettive.

Anche per questa ragione le elezioni politiche stanno facendo emergere in modo univoco le difficoltà che Russia Unita incontra ormai da mesi. È possibile che la scelta di coinvolgere due figure influenti e popolari come il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, e il capo della diplomazia, Sergei Lavrov, ma lontane dalle dinamiche elettorali, sia stata intesa da una parte dei cittadini come un segnale di debolezza, anziché di forza.

Al voto del 2016, sotto la guida dell’ex premier ed ex presidente Dmitri Medvedev, non certo il politico più amato nel paese, Russia Unita aveva conquistato il 54% dei voti. Due anni più tardi Vladimir Putin ha ottenuto il suo quarto mandato al Cremlino con il 77% delle preferenze. Ora il partito degli apparati di potere rischierebbe di scivolare per la prima volta da dieci anni a questa parte sotto la soglia del 50%. Un risultato che potrebbe portare verso nuovi equilibri di governo, e che potrebbe spingere la classe dirigente a riaprire il dibattito sul sistema politico.

Quello odierno è ancorato alla logica della «democrazia sovrana», che ha permesso di raggiungere un elevato grado di stabilità, ma oggi sembra avere raggiunto il limite naturale di funzionamento.