«Pd sotto attacco: chi cerca altre strade lo dica». Hanno scritto così i giornali per sintetizzare lo sfogo di Nicola Zingaretti verso le insofferenze degli alleati di governo del Partito Democratico.

Da qualche giorno però l’attacco è diventato cibernetico e nessuno sa chi o che cosa ci sia dietro.

La notizia l’ha data con una nota il responsabile comunicazione della segreteria Pd Marco Furfaro che ha denunciato ripetuti attacchi hacker al sito web del Partito Democratico dopo quelli che hanno interessato le aree tesseramento e donazione del sito avvenute intorno alla metà di luglio.

Dice Furfaro: «In questi giorni gli attacchi sono nuovamente ripresi. Solo dalla mezzanotte di oggi, stiamo resistendo a un attacco che finora ha generato 31 milioni di richieste da 21mila IP diversi. Grazie al lavoro dei nostri tecnici non sono riusciti a bucare i nostri sistemi».

Si tratta probabilmente di un attacco DDoS, un Distributed Denial of Service attack che, come dice il nome, mira a rendere inutilizzabili alcuni servizi web inondandoli di richieste fasulle.

Ma il sito del partito è protetto da CloudFlare, una società di San Francisco nota proprio per la vendita di servizi di protezione da attacchi informatici come questo di cui parla Furfaro, e lo si vede accedendo alla pagina del partito dove il servizio analizza l’identità del nostro browser prima di farci entrare.

«Data la mole e la forza ingente degli attacchi informatici che stiamo subendo da settimane, il cui costo da nostre stime sarebbe di decine e decine di migliaia di euro, siamo in continuo coordinamento con Istituzioni e Forze dell’Ordine per fare in modo che vengano protetti i dati sensibili e vengano respinti questi tentativi di hackeraggio. A chi dall’estero spreca i propri soldi per provare ad attaccare il nostro partito sappia che resisteremo e che non ci piegheremo».

Potrebbe non essere così, visto che un attacco del genere può essere commissionato per poche decine di euro al giorno.

A rivelarlo un rapporto di Trend Micro Research che dimostra come nel 2015 affittare una botnet, una rete di computer zombie, per effettuare un attacco DDoS, costava 200 dollari al giorno, mentre oggi ne bastano solo 5 per farlo. Perciò la brutta notizia è che l’attaccante potrebbe essere chiunque, l’hacker pagato da un governo canaglia, una gang criminale, l’attivista di un partito avversario.

Non è la prima volta che un partito politico viene attaccato sotto elezioni o in campagna elettorale. E noi abbiamo di fronte il referendum sul taglio dei parlamentari e le elezioni regionali.

Su queste stesse pagine avevamo raccontato dei ripetuti attacchi al partito laburista inglese a inizio novembre dell’anno scorso. Un mese dopo si sarebbero tenute le elezioni, perse, contro Boris Johnson. In quel caso l’obbiettivo, secondo il defenestrato Jeremy Corbyn, erano proprio i dati dei simpatizzanti del partito, come forse è successo a luglio al Partito Democratico.

Ma per fare cosa? Rivenderne i dati per un marketing politico mirato, spaventarne i supporter o ricattare il partito stesso? L’attribuzione e il movente di questi attacchi rimangono per lo più oscuri.

Sempre martedì è stata data la notizia, smentita dal Fbi, che milioni di dati elettorali americani sono stati hackerati, che un attacco al parlamento norvegese ha violato le email di ministri e parlamentari e che la posta elettronica di Luigi Di Maio è stata oggetto di un attacco di «impersonification»: qualcuno ha provato a spacciarsi per il Ministro degli Esteri italiano.

Quanti di questi attacchi non vengono scoperti?