Come ci ha raccontato in questi anni Aldo Bonomi la potenza dei flussi scompone e violenta la vitalità dei luoghi perché incapace di interpretare la cura del paesaggio e la presa in carico della coscienza di luogo.
Questa disputa vale sul piano economico nel rapporto tra economia finanziaria, un flusso, anzi un algoritmo che si muove nella rete, e processo produttivo. Le politiche dell’austerity sono un flusso che spezza i luoghi, le comunità, la nuda vita. Vale nel rapporto tra ciò che è delocalizzabile e ciò che produce valore perché intrinsecamente connesso alla identità, alla cultura profonda di un luogo, ai beni comuni di una municipalità, alla sua storia. Vale nel rapporto complicato tra i flussi migratori e il loro impatto con le piccole patrie occidentali. In questa faglia vi è persino un filone inesauribile di consenso elettorale razzista e a buon mercato.

Una dinamica che appunto taglia come un diamante il rapporto tra alto e basso in economia, in geopolitica e persino nella produzione locale di rancore e paura, la ritroviamo confermata anche sul piano della rappresentanza politica. Cosa è se non questo lo scontro andato in onda nelle elezioni francesi tra élite e moltitudine, tra Union sacrée e frustrazione di popolo alimentata proprio dalla dimensione di flusso assunta dalle politiche neoliberiste di Hollande? Cosa è se non questo il successo straordinario di Podemos come risposta dal basso, democratica e partecipata alla crisi? E in fondo cosa sta diventato, in concreto, il «partito della nazione» in tante parti del Paese se non uno straordinario racconto senza luoghi, dove la dimensione terrena assume i connotati di una questione da rimuovere?

Se la sinistra smette di frequentare i luoghi, se smette di attraversare le comunità locali con uno sguardo globale non sarà capace di narrazioni egemoniche. Non si tratta di enfatizzare il localismo o sommare le vertenze territoriali, si tratta di predisporre una lettura e un linguaggio nutriti dalle cose che accadono sul terreno, perché è qui che vivono, soffrono, si abbandonano all’anomia o a volte si battono le persone in carne ed ossa. Non solo la rete dunque, perché i luoghi esclusivamente immateriali alimentano il pregiudizio e costruiscono mentalità fragili in balia degli stati d’animo. Noi dobbiamo investire su questa dinamica reale, dove la povertà è un odore e la paura adrenalina che produce odio.

Su questo punto dovremmo organizzare una riflessione capace di interpretare le prossime amministrative proprio con la chiave di lettura del rapporto tra flussi e luoghi. Alla destra, così come ai pentastellati, è sufficiente cavalcare la paura che trova capri espiatori ideali nei migranti e nell’europeismo sconfitto. Al «partito della nazione» è sufficiente farsi Stato, anzi governo, costituire risposte dall’alto, regolatorie e distanti, cavalcare con destrezza il flusso della comunicazione pubblica, dello storytelling senza corpo, scarnificato e potente.

La sinistra dovrebbe avere la capacità di sapersi muovere su questo crinale, ostinatamente connessa alla metafora territoriale, dentro a una durevole vocazione al vincolo di popolo. Disposta alla manovra politica, almeno quanto Podemos.

Capace di produrre guerriglia, non guerra di posizione come fosse già un accumulo di forze, e di sfidare le destre e il «partito della nazione» su questo terreno difficile e indispensabile. Soprattutto giocare la partita, come è stata giocata altre volte, sapendo che per battere la destra bisogna prima battere una certa idea di centro sinistra. Senza lasciare il campo, tutto il campo, al partito di Renzi, costituendoci in ridotta e testimonianza.

Piuttosto accettare la sfida per l’egemonia, cogliendo sapientemente le contraddizioni senza rimuoverle, e trasformare le diverse istanze impegnate sul terreno, in un corpo a corpo per la sopravvivenza quotidiana, in progetto idea e conflitto capace di dare sostanza al partito della città. Si, il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione», la sua dimensione incorporea fatta di poteri, effetti speciali e marketing. Sfidarlo ovunque sarà possibile, sfidarlo per prendere tutto il campo, sfidarlo su ogni terreno, agendo la pratica democratica e il federalismo tra le comunità agenti, anche dentro le primarie se le condizioni lo permettono.

Qui può e deve situarsi la sfida della sinistra che verrà, nella consapevolezza che l’unica forza di cui disponiamo è la capacità di porci in movimento, in ascolto, tra le pieghe di una società stremata. Senza rinunciare mai, senza farci bastare perimetri e verità per schiere ridotte, senza coccolarci nell’etica della sconfitta o in quella del sol che verrà. Attrezzarci per riconquistare quote di consenso e radicamento sociale, qui, ora, mentre la vita avviene, senza attese messianiche o misurazioni meccaniche di rapporti di forza.

Sarebbe la migliore delle battaglie quella predisposta per battere sul campo il partito di Renzi, senza rinunciare aprioristicamente ai luoghi del confronto e dello scontro. Appunto come possono essere le primarie. Battere il «partito della nazione» alle primarie per accumulare forza e credibilità, per battere alle elezioni il partito che fa davvero paura, quello delle piccole patrie, fisiche o immateriali, dei razzisti espliciti e del populismo becero e giacobino. Battere il Partito di Renzi alle primarie con una eccedenza di partecipazione democratica.

Un soggetto politico si fonda nella mischia di una battaglia e nella possibilità di vittoria. Difficile immaginare una costituente immobile, autoreferenziale, persino un po’ regressiva sul terreno della cultura politica. Soprattutto non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo.