Aveva detto che sarebbe andato alla direzione del Pd perché «è casa mia». Ma anche questa volta Matteo Renzi, pur restando fino alla fine, sta zitto concedendosi solo alla selva di telecamere che lo inseguono all’entrata e all’uscita come se fosse già il nuovo leader, per dire che la sua candidatura alla guida del governo in formazione «resta altamente improbabile». Del resto l’ipotesi – che tentava molto il sindaco – dura lo spazio di un mattino. Il tempo di capire che per Giorgio Napolitano non va bene e la teme Berlusconi, e in direzione l’unico a nominarla è Umberto Ranieri.

[do action=”citazione”]Il Pd si consegna a Napolitano. La direzione discute sul tipo di governo, poi mette a disposizione del capo dello stato «personalità del partito»[/do]

Diretta streaming, rinviando dunque la vera resa dei conti, verso il congresso. Anche se Pier Luigi Bersani apre citando il titolo di Le Monde «Colpito Prodi per affossare Bersani», ma «non sanno che qui abbiamo i missili a testata multipla», però questa cosa «lasciamocela alle spalle» perché «se ci sono degli irresponsabili la responsabilità è del responsabile». Dimissioni confermate, per non rimuovere «un problema strutturale che se non verrà preso di petto si riproporrà fino a esiti letali». L’ex segretario denuncia «anarchismo e feudalizzazione». E se «a questa prima prova non abbiamo retto rischiamo di non reggere nelle prossime settimane. Oggi dobbiamo trovare un principio d’ordine». Cioè «mettere a disposizione le nostre forze e le nostre risorse per una soluzione di governo», il partito è in trappola e il capo dello stato attende sul Colle che gli si consegni mani e piedi. 

E così sarà, con 7 contrari (soprattutto prodiani) e 14 astenuti (presenti 197 delegati) sul documento che dà mandato alla delegazione Pd salita al Quirinale di «assicurare pieno sostegno al tentativo del presidente della repubblica di formare il governo», «mettendo a disposizione la propria forza politica e le personalità del partito utili a ciò». La discussione sul tipo di governo – politico, istituzionale o quantomeno «a bassa intensità politica», come dice il renziano Matteo Richetti – è soprattutto a uso interno. La scelta viene affidata a Napolitano. E se Dario Franceschini – disturbato dallo streaming – invita a «dire chiaramente che non stiamo facendo un governissimo», è lui stesso a aggiungere che «il governo insieme al Pdl è il terreno peggiore, ma la situazione ci ha portato a questa scelta», dunque «dobbiamo dire sì al presidente Napolitano, dire dei nomi e poi deciderà lui», anche se «non è obbligatorio avere al governo le personalità più complicate per noi e per loro». Possibilmente, non i segretari, aggiunge Anna Finocchiaro (dunque no a Angelino Alfano), ma le «eccellenze politiche» sì. E «ci lapideranno, ma cambieremo quello che dobbiamo cambiare». «Ci atterremo alle decisioni che prenderà domani il presidente Napolitano», comunica Enrico Letta dopo le consultazioni. E «se qualcuno vota in modo diverso guai a se esce dal partito, dobbiamo tenere i più lontani dentro», aveva aggiustato il tiro Franceschini sulle espulsioni. Ma «è difficile immaginare che in un partito c’è chi sta in maggioranza e chi sta all’opposizione».

E ancora, il presidente mancato Franco Marini: «Non possiamo fare l’errore tragico di andare al governo con figure di minore esperienza». No, «governo di scopo, di bassa caratura politica», obietta Rosy Bindi astenendosi, in attesa di capire quale sarà la scelta, perché «credo ci sia lo spazio per dire al presidente che tipo di governo il Pd vuole». Ma «qualunque cosa deciderà il partito io mi rimetterò alle sue decisioni, e chi non vorrà votare la fiducia dovrebbe trarne le conseguenze anche prima».

Solo un abbozzo della discussione che verrà («discuteremo, non ci ho rinunciato, non mi sento fallito come fondatore», dice ancora Marini). Anche se Debora Serracchiani non vuole lasciarsi alle spalle quel che è accaduto: «Perché sono state fatte due direzioni nazionali in cui si era detto no al governissimo – chiede – per poi fare un accordo sul nome di Marini? vorrei capire il no a Prodi e a Rodotà e come siamo arrivati a Napolitano. Lo vorrei capire per poterlo spiegare». Ci prova l’ex segretario: «Mentre si diceva no al governissimo, si disse ’apertura per la ricerca di soluzioni condivise, secondo il dettato della Costituzione’. E’ emersa la possibilità che potesse essere un esponente del centrosinistra, abbiamo portato il nome alla nostra assemblea, abbiamo votato, è successo quello che è successo». Marini all’assemblea è arrivato a sorpresa, dopo che era stato Berlusconi a sceglierlo, però. Poi Bersani mette in guardia: «Stiamo galoppando verso un’altra Repubblica senza saperlo». E con l’allarme finale sul rischio del presidenzialismo, il Pd del «governo di cambiamento» si arrende al governissimo del presidente.