Che si tratti di un «momento storico» è oggetto di discussione. Perché non si è ancora capito quanto il partito islamista Raam sia concretamente dentro la «coalizione del cambiamento» o se si limiti a garantirne la sopravvivenza con i suoi quattro seggi in cambio di finanziamenti destinati alle località dove il 23 marzo gli elettori hanno votato per il partito. E se i partner della coalizione applaudono a Mansour Abbas, leader di Raam e protagonista della «svolta», la posizione presa dalla formazione araba è ora bersaglio delle critiche tanti palestinesi d’Israele. A cominciare da quelle taglienti che giungono dagli ex alleati della Mustarake, la Lista araba unita. In 73 anni solo due volte i partiti arabi hanno appoggiato un governo israeliano. Negli anni ’50 una piccola fazione composta da un parlamentare entrò nella coalizione, ma si trattava di una sorta di sezione araba del partito Mapai al potere. E poi negli anni ’90 quando il governo di Yitzhak Rabin, nel periodo degli Accordi di Oslo, ebbe l’appoggio esterno dei partiti arabi per superare alcuni voti di fiducia rischiosi per la sua tenuta.

«Siamo seri, non sta nascendo un vero governo di coalizione, piuttosto siamo davanti a un accordo tra varie forze per allontanare Netanyahu dal potere. In ogni caso sarà un governo di destra in cui domineranno estremisti come (l’ex ministro) Avigdor Lieberman o che avrà come primo ministro Naftali Bennett uno degli esponenti principali del movimento dei coloni israeliani (in Cisgiordania, ndr)», dice al manifesto Heba Yzabak, ex deputata alla Knesset per il partito Tajammo (Balad). Yazbak evita di fare riferimenti diretti ad Abbas ma tra le righe gli dice che «non si può far parte di un governo che non agirà per mettere fine alle discriminazioni che affrontano i cittadini palestinesi d’Israele e all’occupazione dei Territori. Il nostro compito, come rappresentanti della nostra comunità, è lavorare per la giustizia e per i diritti e non per favorire manovre di palazzo».

Le critiche non smuovono Mansour Abbas. Ritiene di aver aperto la strada a una trasformazione concreta della politica israeliana, costringendo i partiti sionisti a venire a patti con lui, ad accoglierlo nel salotto buono dal quale gli arabi di Israele per 73 anni sono stati esclusi. E mercoledì sera, mentre si decideva il destino del tentativo del premier incaricato Yair Lapid, che sarà ricordato per aver, dopo 12 anni, spedito Benyamin Netanyahu all’opposizione, Abbas è apparso perfettamente a suo agio davanti alle telecamere di tutte le tv mentre veniva partorita la coalizione che unisce partiti di destra e di centrosinistra. Si dice certo di aver incassato quanto voleva per aggiungere i quattro seggi di Raam alla maggioranza in costruzione. Riferisce del sì, anche dei partiti di destra della coalizione ai piani di sviluppo per 53 miliardi di shekel (oltre 16 miliardi di dollari) che su sua richiesta saranno investiti nei prossimi cinque-dieci anni nelle città e nei villaggi arabi. «Abbiamo raggiunto intese per dare soluzione ai problemi scottanti della nostra comunità: pianificazione, crisi abitativa e, naturalmente, la lotta alla violenza e alla criminalità organizzata», ha riferito Abbas ai giornalisti assicurando che grandi benefici andranno anche alle comunità beduine del Negev, nel sud di Israele, dove Raam ha una delle sue roccaforti.

I suoi detrattori e gli ex alleati della Mustarake dubitano che queste promesse saranno rispettate quando il governo vedrà la luce. A partire dal riconoscimento di tre centri abitati beduini inesistenti per lo Stato – Abda, Khashm al Zena e Rakhma – per finire alla modifica della legge Kaminitz del 2017 che prende di mira l’edilizia «illegale» in città e villaggi arabi, uno dei punti centrali dell’accusa di discriminazione che i palestinesi d’Israele rivolgono allo Stato. Abbas, lo pensano molti, ha ricevuto solo vaghe promesse e garanzie incerte non diverse da quelle che aveva avuto nei mesi scorsi quando si era aperto al dialogo con Benyamin Netanyahu. Presto, aggiungono, si renderà conto di essere stato un ingenuo. Da parte sua l’avvocata dei diritti umani Sawsan Zafer, della ong Adalah, non si esprime sul passo fatto dal leader di Raam. «Per correttezza professionale ci asteniamo dal giudicare le scelte politiche dei singoli partiti arabi» ci dice «tuttavia non posso non notare che durante i negoziati per la nuova coalizione il tema dei diritti umani e delle discriminazioni antiarabe non è mai emerso. A conti fatto l’unico punto sul quale i leader di partito si sono impegnati sino in fondo è solo la rimozione di Netanyahu dal potere».