Old Nick è uno degli epiteti coi quali, in inglese, si nominava il diavolo agli albori della modernità. Un suo primo uso è rinvenibile attorno al 1643 ed è suggestivo ricondurne l’origine alla cattiva fama dell’autore del Principe e dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Al di là di qualsivoglia questione etimologica, per lunghi secoli l’opera di Machiavelli è stata considerata alla stregua del manuale del perfetto tiranno. Solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, una più recente storiografia ha smarcato il pensiero del segretario fiorentino da quest’immagine cristallizzata nei secoli. In particolare, a partire da alcuni studi di Louis Althusser, Machiavelli è divenuto uno dei «maestri» di un canone sovversivo della filosofia che pone nel conflitto il baricentro di qualsiasi considerazione sulla politica.

L’enfasi sulla cifra conflittuale della sua opera, se è servita a scardinarne l’immagine demoniaca, non ha impedito che essa sia stata spesso inquadrata all’interno dell’orizzonte concettuale della sovranità moderna e della sua statualità. Insomma, il Machiavelli conflittuale ha spesso strizzato l’occhio al profeta dello Stato nazione a venire.

L’ordinamento della libertà. Machiavelli e Firenze di Fabio Raimondi (ombre corte, euro 16) prova a restituire Machiavelli al suo tempo e al suo contesto politico, che è quello di una modernità ancora non integralmente fissata nella vicenda dello Stato sovrano. Non si tratta tuttavia di una operazione erudita di contestualizzazione. Restituire Machiavelli a Firenze significa per Raimondi riportarlo al problema politico che ha sempre attraversato la sua esperienza pratica e teorica: la repubblica come forma politica della disunione. Significa riattivare al presente la sua pratica politica di «presa di parte in situazione». Un Machiavelli partigiano piuttosto che profeta.

Il segretario militante

Soffermandosi in particolare sulle Istorie fiorentine e su due brevi testi composti tra il 1520 e il 1522 – il Discursus florentinarum rerum e la Minuta di provisione per la Riforma dello Stato di Firenze – Raimondi ricostruisce questa «situazione» sondando l’ipotesi di un Machiavelli repubblicano anche e soprattutto post rem perditas, di un Machiavelli «militante», ossessionato dal problema di come pensare un riordinamento repubblicano per Firenze che sia capace di istituire e rafforzare la sua particolare libertà.

Firenze per Machiavelli è il paradigma e la crisi stessa del concetto di repubblica. Le dinamiche che l’attraversano fanno saltare i modelli interpretativi approntati e collaudati nelle opere precedenti e lo costringono a un vera e propria ridefinizione concettuale. Il principio della corruzione di Firenze pare infatti essere tutt’uno con la ragione del suo conservarsi: le sue divisioni interne. Alle prese con questa aporia, Machiavelli torna sui suoi «principi» e innova al contempo l’orizzonte della propria analisi. «Firenze è esempio del nuovo e richiede un sapere tutto nuovo» osserva Raimondi. Non abbiamo a che fare, però, con la nascita della scienza politica moderna, intesa come trasposizione di una logica neutrale e oggettiva sulla materia politica. Il «legame divisivo» sul quale si regge Firenze, gli scontri che l’attraversano, impongono all’osservatore una presa di parte che, lungi dall’essere l’opposto dell’oggettività, ne è la condizione necessaria. Solo grazie a essa diviene possibile afferrare la verità, che è sempre «offensiva», per usare le parole dello stesso Machiavelli, e mai neutrale. È quindi la ricerca di una possibile virtù della disunione, che renda il conflitto civile motore di una città libera e potente, a segnare questa fase del pensiero machiavelliano.
Se il popolo, per il suo desiderio di non voler essere dominato, continua a essere repubblicanamente il guardiano della libertà, non lo è in base a una sua qualità naturale o morale, ma poiché Machiavelli lo riconosce l’unica forza in grado di frenare e deviare la trasformazione del rapporto gerarchico del mondo feudale in quello servo-padrone. Sono i suoi tumulti a rappresentare la sola possibilità di rigenerazione e di invenzione istituzionale della comunità politica.

La storia di Firenze mostra però a Machiavelli che il popolo e i grandi non rappresentano più i due unici umori che muovono l’aggregato politico. Firenze, città mercantile, sperimenta il sorgere del capitalismo e del suo ordine disordinato perché produttore di divisione e di un movimento che non risparmia nessuno. Gli interessi individuali ed economici attraversano e dividono anche il popolo. Ciò che sembrava naturale per la Roma antica, l’opposizione tra due umori, non lo è più per Firenze. Gli umori diventano trasversali, complicano e offuscano la geografia del conflitto e dei comportamenti politici approntata da Machiavelli a partire dall’esempio romano. È però a questa altezza che la politica deve essere in grado di acquisire uno statuto determinato, critico, visto che per «crisi» Machiavelli non intende più il sinonimo di corruzione, decadenza, degenerazione, ma il motore dell’ordine mercantile in ascesa, delle sue istituzioni politiche e sociali. A partire da questa scoperta, egli ripercorre la storia delle lotte e divisioni che attraversano e hanno attraversato Firenze e prova a pensare l’impensabile.

L’equilibrista

Tumulti, discordie, fazioni, sette, armi, ordinamenti, sono solo alcuni dei fattori presi in considerazione da Machiavelli per afferrare il processo di continua divisione, distruzione e creazione di ordine che caratterizza il capitalismo, anche quello degli albori, e le contraddizioni che non smette di sviluppare anche e soprattutto «dentro» le parti piuttosto che tra di esse. Machiavelli si muove come un equilibrista sospeso a centinaia di metri d’altezza. Egli è costretto, dalla situazione, a vagliare qualsiasi strumento istituzionale che, tenuto conto dell’ordine divisivo del capitalismo nascente, non gliene lasci il dominio sulle vite degli uomini. Da qui l’ambiguità che spesso gli è stata rimproverata. Ma in questa costrizione egli sperimenta filosoficamente quel concetto di libertà che rappresenta il fulcro della sua opera e che Raimondi ha il merito di ricostruire puntualmente. Una libertà parziale, sempre situata e collettiva, mai astratta e individuale. Una libertà pensata come quel vuoto che deve essere tenuto sempre aperto in un ordinamento dalla forza delle lotte. Una libertà che si fa ordinamento nel momento in cui riesce a riconoscere, istituzionalizzare e orientare con la forza verso l’uguaglianza, quel fattore divisivo che rappresenta la verità di ogni città.