Non ha mai ceduto alla retorica. Massimo Ottolenghi compirà 100 anni a giugno. Partigiano di Giustizia e Libertà, magistrato e avvocato nel dopoguerra, nato in una famiglia torinese laica di origine ebraica, è stato militante del Partito d’Azione con Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone e Giorgio Agosti.

«Sono fiero di essere un uomo libero, un ribelle e di invocare, ogni 25 aprile, un esame di coscienza. Noi banditen, che i fascisti volevano ammazzare, siamo stati i veri e soli difensori della legge. Ci eravamo battuti per la giustizia e la legalità, in tempi durissimi». Classe 1915, come Pietro Ingrao («Una grande figura»), ha respirato antifascismo fin da giovanissimo. Il padre, professore di diritto internazionale, amico e collega di Luigi Einaudi, fu espulso dall’Università e cancellato dall’albo degli avvocati, a seguito delle leggi razziali del 1938.

Allievo di Augusto Monti, pedagogo antifascista, al mitico liceo D’Azeglio, Ottolenghi ha fatto parte di quella generazione unica di ragazzi che venivano chiamati «comunisti dalle braie curte» (calzoni corti): Emanuele Artom, Oreste Pajetta (cugino di Giancarlo, storico dirigente del Pci, arrestato a 17 anni nei corridoi della stessa scuola) e i loro fratelli maggiori Vittorio Foa, Leone Ginzburg e Franco Antonicelli.

L’indelebile ventennio

Ha vissuto un secolo, ma quei vent’anni di fascismo rimangono indelebili. Nel 1937, alla vigilia della laurea in giurisprudenza e della partenza per il servizio militare, fece il suo primo e unico possibile viaggio all’estero, a Vienna. Lì, si trovò coinvolto in un’improvvisa sparatoria, premonizione di un futuro nero, nerissimo. «Avevo il ventre a terra e mi riparavo dietro a due scalini, le raffiche ci sfioravano. Era un’incursione delle Camicie brune, un pogrom. Un’esercitazione in vista del prossimo Anschluss (1938), l’annessione dell’Austria da parte delle forze naziste. Fu un’esperienza scioccante, ma allo stesso tempo istruttiva. Tornai a casa e lanciai l’allarme alla comunità ebraica torinese. Venni, però, visto come un giovane esaltato e suggestionabile. Invece, un anno dopo arrivarono le leggi per la difesa della razza e, nel 1940, l’entrata in guerra a fianco dei nazisti».

La motocicletta saettava

Le bombe, il 1943 con 45 giorni di ebrezza, poi l’8 settembre: «Ci fu il tradimento di tutte le parti. In via Corte d’Appello vidi un’automobile scoperta con a bordo un generale che aveva, da un lato, mezzo vitello e, dall’altro, una cassaforte. Questo era il nostro esercito». E la straordinaria pagina della Resistenza (non solo armata), scritta sui monti della Val di Susa e di Lanzo e nelle città, con la gente comune e i comandanti partigiani (Giulio Bolaffi, Mario Andreis, Gianni Dolino, Battista Gardoncini, Pietro Sulis). Finalmente, giunse la Liberazione.

Il 25 aprile, a Torino, arrivò tre giorni dopo. «Il mio ricordo è quello di una motocicletta di grossa cilindrata che, a fari spenti, saettava per le vie di una città ancora impaurita. I cecchini fascisti sparavano dai tetti del teatro Alfieri, lungo le strade c’erano morti e, intorno, tutto era sventrato e fumante. Sul mezzo, c’eravamo io e Giovanni Trovati alla guida. Al tempo, era poco più di un ragazzo, in futuro sarebbe diventato il vicedirettore della Stampa. Aveva il compito di scortarmi in via Roma presso una tipografia, bisognava fare uscire il primo numero di Gl, il nostro quotidiano. Operai, vecchi e ragazzi, uomini di tutte le età, dopo aver salvato macchinari e scorte, sarebbero affluiti alle prime luci del giorno, per chiedere e portare notizie».

«Non è un simbolo posticcio»

Massimo Ottolenghi

Settant’anni fa, il mondo stava per cambiare colore. «I significati che si possono dare a Resistenza e a Liberazione – racconta, ora, dal tavolo del suo studio – sono infiniti, ma si rischia di farli diventare simboli posticci. La Resistenza è l’inizio del riscatto e la rinascita di un popolo per la giustizia, la libertà e l’eguaglianza. Il 25 aprile segna la resurrezione. Per evitare di farne un gagliardetto da alzare ogni dodici mesi, questa data dovrebbe, invece, diventare l’occasione per un resoconto annuo sul progresso della democrazia. Se c’è stato o meno». Come valutarlo? «Che tutti possano, in senso egualitario, partecipare alla vita politica. Che i partiti non vengano personalizzati o diventino strumenti di potere e così i sindacati e le cooperative. Che la magistratura non venga assoggettata all’esecutivo e non si occupino posti pubblici attraverso corruzione e mafia. La vera rivoluzione sarebbe il rispetto dei diritti e dei doveri, che agli italiani non piacciono particolarmente».

Nel 2011, al crepuscolo del ventennio berlusconiano, Ottolenghi ha scritto Ribellarsi è giusto (Chiarelettere), un monito rivolto alle nuove generazione: «Noi non ce l’abbiamo fatta, abbiamo fallito, ora tocca a voi», scriveva.

Auspicava «un miracoloso soprassalto per evitare una nuova shoah dei diritti». Un appello tuttora valido: «Nel dopoguerra, ci siamo dimenticati che non dovevamo solo ricostruire il Paese dalle macerie, ma anche gli uomini. Il mio auspicio è che il 25 aprile sia come il 14 luglio per i francesi. I primi vent’anni di questa ricorrenza sono stati costruttivi, poi distruttivi, con Craxi e soprattutto Berlusconi: attacchi continui alla Costituzione, alla magistratura e leggi ad personam. Non siamo ancora usciti da questo periodo regressivo, basta vedere il discutibile quadro di riforme costituzionali che vede impegnata l’attuale maggioranza di governo».

[do action=”quote” autore=”Massimo Ottolenghi”]«Solo l’azione che nasce spontanea dall’indignazione muove la storia»[/do]

Ogni anniversario della Liberazione è tempo di memoria e di memorie. «I testimoni sono preziosi è bene che ci aiutino a ricordare, ma con consapevolezza critica. La mia è una memoria fotografica o meglio radiografica. Degli amici, che non ho più, mi rimane impressa l’immagine della loro anima più che del loro volto. Giorgio Agosti uomo apparentemente rude, ma generoso e dallo humour vivissimo. Galante Garrone, mite giacobino come si autodefinì, un uomo di una disponibilità ammirevole». I ricordi lo riportano ancora al passato, all’omicidio dei fratelli Rosselli e al periodo in cui le dittature arrivarono al massimo della loro potenza. Nel 1938 iniziò la resistenza di Ottolenghi, che ideò una rete di soccorso e protezione per gli ebrei. «Le leggi razziali furono accolte con indifferenza in Italia, d’altronde colpivano solo 30 mila persone. Ci fu più coscienza umana nel popolo che nella borghesia, ignorando come la tragedia avrebbe coinvolto tutti. Nel 1941 vi fu a Torino un’improvvisa recrudescenza antisemita. San Salvario e il centro furono cosparsi di manifesti con la scritta “Nemici d’Italia” che aizzavano al pogrom. Un gruppo di volontari e studenti ebrei, capeggiati dalla futura penalista Bianca Guidetti Serra, li strapparono dai muri, sorprendendo la polizia fascista».

Un giornale, con Bocca e Casalegno

Dal 1944, Ottolenghi venne inquadrato nella Divisione cittadina di Giustizia e Libertà; Buby, Oliva, Ottolino, i suoi nomi di battaglia. Dopo la guerra, il giornale Gl, di cui Ottolenghi era amministratore e redattore, con Giorgio Bocca e Carlo Casalegno, durò poco; le pubblicazioni cessarono il 4 aprile del 1946.

Era iniziata la diaspora del Partito d’Azione. «Ricordo l’incontro con Ferruccio Parri (primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata dal nazifascismo), il partigiano Maurizio, che, consapevole di essere minoritario, mi disse: “Siamo rimasti in pochi; siamo pulci, che sanno però quello che vogliono e debbono volere. Dalla Repubblica alla nuova Costituzione, al rinnovamento di una coscienza democratica”».

Pesa le parole: «Ero un meticcio figlio di un matrimonio misto, libero dai rapporti con Dio e cresciuto da uomo libero. Poi, sono diventato una cosa, vedendo scritto sui negozi che l’ingresso era vietato a ebrei e cani; infine, sono tornato uomo. Sempre libero, non ho mai voluto asservirmi a nulla».

E conclude: «I giovani devono difendere la scuola pubblica, gli investimenti nella cultura e la Costituzione. Solo l’azione che nasce spontanea dall’indignazione muove la storia».

Ecco, essere partigiani oggi.