Il giorno dopo l’incenerimento della prorogation da parte della corte suprema (poiché illegale, la sospensione non è mai esistita: dimenticatevela, è stato il senso del verdetto) i deputati sono tornati frettolosamente in una Westminster brulicante di turisti. Per ricalarsi esattamente nelle pastoie in cui si trovavano prima di tanto frastuono costituzionale.

Dopo che i giudici supremi ne avevano silurato il piano, Johnson è stato aviotrasportato d’urgenza ieri mattina da New York e solo in serata ha riferito ai deputati sulla sentenza. Un discorso impenitente il suo, aggressivo, controffensivo, non da leader umiliato. Niente scuse. «La rinegoziazione sta facendo progressi/l’Ue ci ascolta/quest’aula sta frustrando tutti questi tentativi e Brexit nel suo complesso/ tutto questo il popolo lo vede, vede che il parlamento non vuole eseguirne la volontà/vivono in un mondo di fantasia, non ci sarà un altro referendum, rispetteremo la volontà del primo/l’opposizione è fuggita dalle elezioni, ha preferito ricorrere ai giudici e questi hanno – lo dico rispettosamente – sbagliato a produrre un verdetto politico/questo è un parlamento codardo, che non vuole mollare i seggi».

Eppure questo ci si aspettava da un Johnson in salsa Farage, in una situazione dove essere in minoranza, squalificato dal potere giudiziario, in mezzo a un crac costituzionale – e ora anche investigato per fondi pubblici concessi a un’amica quand’era sindaco – non gli impediscono di restare dov’è. Ha poi chiuso in bellezza, facendo ricorso al verbo che da sempre alza la dopamina alle destre prima di causare pogrom o guerre: il tradimento. «Noi non tradiremo il popolo!».

Floscia la replica di Corbyn, che lo ha definito inadatto all’incarico perché convinto di essere al di sopra della legge. «Lui vuole elezioni e le voglio pure io. Ma se davvero le vuole, che prima richieda l’estensione della scadenza all’Europa», ha detto il leader laburista, cercando di dissimulare il disaccordo interno sulla data delle elezioni.

Insomma, se martedì è successo di tutto – il premier mentitore, la monarca fuorviata, la common law riscritta – ieri per quanto riguarda Brexit non è successo (ancora) niente. Lo stallo è sempre lo stesso: non elezioni se, ma elezioni quando. Il governo le vorrebbe ora e l’opposizione dilaziona perché prima vuole escludere il solito no deal al 31 ottobre, che attraverso la legge Benn – votata nella settimana antecedente alla prorogation che non è mai esistita – obbliga Johnson a chiedere una posticipazione al 21 gennaio qualora non sia nel frattempo riuscito a rinegoziare l’accordo di uscita e di farselo approvare dal parlamento, due step finora falliti a ripetizione. Nei prossimi giorni il parlamento cercherà di rafforzare questa legge, vista l’intenzione del governo di trovare una scappatoia giuridica per aggirarla.

In aula, mentre si attendeva Johnson, ci sono stati scambi iracondi, il clima bilioso a dir poco. L’Attorney General, Geoffrey Cox, responsabile per aver suggerito a Johnson di prorogare (sospendere) il parlamento, ha giurato di averlo fatto in buona fede ritenendo l’iniziativa legale. Ha definito il parlamento “morto”. E ha sfidato i Comuni a mutare il Fixed Terms Parliaments Act 2011, che richiede almeno i due terzi dei voti dell’aula per fissare le elezioni, in qualcosa di più prêt-à-porter, che richiederebbe una semplice maggioranza. Cosa che ancora Corbyn non vuole, perché “obbligato” a scongiurare il no deal. Nel caso in cui Johnson lasciasse o fosse rimosso – entrambi improbabili – si aprirebbe poi l’ovvia questione di chi gli succede. Così come Corbyn non è sicuro di ottenere il necessario sostegno dell’aula, potrebbe non esserlo qualunque altra ipotetica leader «di unità nazionale», proprio mentre si avvicina indisturbata la mannaia del 31 ottobre.