Il coronavirus – direbbero gli inglesi – è un game changer: dopo, niente sarà più come prima. Saltano topoi consolidati della politica, delle istituzioni, del diritto. Accade per il regionalismo differenziato, per la spocchia dei governatori, per le celebrazioni del separatismo nordista in chiave di efficienza, per le sanità regionali fin qui definite di eccellenza, per il meno pubblico e più privato, per il rapporto con l’Europa, per gli eccessi del rigorismo monetario e di bilancio. Si rinviano scadenze elettorali di primario rilievo. Vengono limitati diritti fondamentali e libertà in una misura e secondo modalità mai viste.

Il diritto costituzionale dell’emergenza andrà ripensato e in parte riscritto. Uno dei punti in sofferenza è quello del parlamento come organo costituzionalmente necessario, da garantire senza eccezioni – come da lungo tempo insegna la Corte costituzionale – nella continuità operativa. Dal punto di vista costituzionale, il parlamento non chiude mai. Ed essendo la legge in vario modo richiamata dalle norme costituzionali quando sono toccate le situazioni soggettive costituzionalmente protette, il parlamento è formalmente centrale nell’emergenza.

Ma uno sguardo più ravvicinato induce a dubitare che il modello sia nei fatti rispettato. Dall’inizio della crisi abbiamo i decreti-legge numero 6, 9 e 14/2020, i dpcm 8, 9 e 11 marzo 2020, cui si aggiunge la proposta governativa di scostamento del bilancio. Le limitazioni a diritti e libertà vengono disposte in (forse troppo) ampia misura e nel dettaglio con atti sub-legislativi. Il parlamento balbetta, mentre potrebbe chiamare il premier e i ministri a riferire. Così, è anemico il dibattito del 4 marzo in senato sulla conversione del decreto legge 6/2020. L’11 marzo alla camera votano in 332 sullo scostamento di bilancio, essendo richiesta la maggioranza assoluta dei componenti, con 300 assenze concordate a priori. Un po’ meglio al senato, dove nello stesso giorno votano in 221 in ordine alfabetico a scaglioni successivi. Ma in compenso i senatori non si riconvocano prima del 25 marzo.

Pare che qualcuno ipotizzi, per allungare i tempi sui decreti-legge, di superare il termine di 60 giorni per la conversione, o di tornare alla prassi – abbandonata da anni per una condivisibile giurisprudenza costituzionale – della reiterazione prima della scadenza. Trucchi per assemblee a scartamento ridotto. Il punto è che la Costituzione disegna l’architettura formale dei poteri, in cui il parlamento è essenziale. Ma non dice – né potrebbe dire – cosa è nella sostanza un’assemblea rappresentativa degna del nome, e dell’altissima missione ad essa affidata. Contingentata la presenza in aula, diradato o azzerato il calendario, rimane la voglia di correre coraggiosamente verso l’uscita.

Altro pensavano i costituenti scrivendo nell’articolo 77 che il governo deve il giorno stesso presentare il decreto-legge adottato alle camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. Scommettevano sulla responsabilità del governo verso il parlamento, e non sull’ignavia del parlamento nei confronti del governo. Oggi, la parola chiave è paura.
Che messaggio si dà agli operai, che si accordano per rimanere in fabbrica con garanzie minime per la salute, o ai lavoratori dell’agro-alimentare, cui si dice che devono rimanere al loro posto per non condannare il paese alla fame? O a quelli

che negli ospedali combattono il virus in prima persona, crollando esausti sul posto di lavoro come l’infermiera in una foto che ha fatto il giro del mondo?

Avremmo apprezzato una convocazione delle camere in seduta permanente. Temiamo invece di trovare deputati e senatori nascosti in casa, obbedienti verso i provvedimenti governativi, al più disposti a un voto a distanza, gradito – come riferisce questo giornale – a non pochi. Tutto questo ci dice che in futuro una priorità assoluta sarà non solo difendere il parlamento dai rottamatori della Costituzione e dai fautori del taglio dei seggi, ma anche fare il necessario per un parlamento migliore.

Il costituzionalista Armaroli scrive sul Dubbio del 13 marzo che nell’emergenza c’è bisogno di eroi. Ha ragione. I migliori candidati avrebbero bene potuto essere deputati e senatori. Ma dipende dalla umana debolezza di scelte e comportamenti se meritare una statua, o la gogna.