Elezioni sì, ma quando? Gli ultimi sviluppi vedono Johnson momentaneamente abbandonare il proprio accordo di uscita rinegoziato con Bruxelles appena giorni fa – facendo inferocire i succitati Tories moderati – e spingere a tutto gas verso elezioni anticipate. E a dicembre: mese sciaguratissimo per appuntamenti simili, non a caso sarebbe la prima volta dal 1923. Ma poiché era troppo difficile concordare una data unica, per semplificare ne è emersa un’altra. E su questo si giocava il dibattito in aula di ieri sera. Il governo voleva andare alle urne il 12 dicembre, ma non aveva i numeri per farlo come richiesto dal Fixed-term Parliament Act del 2011, che lo obbliga a racimolare il sostegno di almeno due terzi dei deputati. Ed è stato puntualmente sconfitto. O meglio, ha vinto – 299 a 70 – grazie all’astensione laburista, annunciata e puntualmente accaduta. Ma aveva bisogno di 434 voti, quei due terzi, appunto, imposti dal Ftpa.

L’altra data, che probabilmente si voterà entro la settimana, se non oggi stesso, e alla quale Johnson stesso finirà per aggrapparsi, è il 9 dicembre, come vorrebbero gli scozzesi dell’Snp e i Libdem: settantadue ore prima che permetterebbero di rispettare il limite legale di venticinque giorni necessari alla campagna elettorale (oltre che di aggiudicarsi il voto degli studenti universitari prima che inizino le vacanze). Ma la differenza sostanziale sta nel fatto che non richiederebbe quei due terzi imposti dal Ftpa, accontentandosi di una semplice maggioranza e aggirando così il dissenso laburista.

È la prossima chance per Johnson di liberare il Paese “tenuto ostaggio” dal parlamento. Fallita quella, lui e Dominic (Cummings) troveranno di certo qualche altra scappatoia. Il danno con l’elettorato brexittiere più inacidito appena incassato dal premier è pericoloso: deve addossare la colpa al parlamento a tutti i costi, una manovra tutt’altro che impervia, visto che è… vero. Finora, da che Johnson è subentrato a Theresa May, il gioco di ruolo fra governo di minoranza e parlamento frammentato ha funzionato pressappoco così: il primo s’inventa una creativa via d’uscita dalla paralisi, ma è troppo debole per imporla; il secondo gliela cassa pur non sapendo esattamente cosa controproporre. Tutti vogliono le elezioni – non solo il premier che vuole uscire dalle pastoie del “parlamento zombie” – ma le vogliono su misura: i Tories moderati vorrebbero che prima fosse approvato il già più volte sconfitto accordo di uscita di Johnson; il Labour di Corbyn ripete da settimane che prima delle elezioni vuole la certezza assoluta che il no deal sia eliminato (condizione ora meno improbabile grazie alla flextension, anche se il Pinocchio Johnson non lo garantirebbe mai); i nazionalisti scozzesi e i liberal-democratici vorrebbero invece prima l’eliminazione dell’accordo Johnson, che considerano peggiore di quello May. I libdem di Jo Swinson, in particolare, si sono a loro volta allontanati dal mantra ripetuto finora di voler un secondo referendum, lasciando nello sgomento il nutrito fronte interparlamentare che lotta per il cosiddetto people’s vote.

«Senza se e senza ma»; «costi quel che costi»; «passeranno sul mio cadavere»: sono solo tre delle molte formule utilizzate da Boris Johnson per rassicurare un Paese ormai stremato dallo stillicidio Brexit che lo avrebbe fatto evadere dall’Unione Europea nudo e vestito ma entro il 31 ottobre, dopodomani. Tutte chiacchiere e distintivo, almeno finora. Se la scadenza, pur avendo resistito più a lungo, ha puntualmente seguito le precedenti nella discarica delle scadenze mancate è anche grazie alla flextension (altra crasi perversa che sta per estensione flessibile) concessa da Bruxelles, dove la flessibilità indica che il paese potrebbe uscire prima del 31 gennaio 2019 qualora il deal negoziato da Johnson, ormai per assurdo, riuscisse a essere approvato dal Parlamento. Una proroga che lui stesso è stato costretto a chiedere all’Ue – lo ricordiamo – per via del Benn Act, legge votata a settembre dal Parlamento che così lo obbligava.