«Il ronzio di una mosca, il battito d’ali di una farfalla, l’odore della terra bagnata, l’aria tersa attraversata da una rondine, il canto di un gallo in lontananza, la danza di una farfalla sopra la lavanda, il guizzo delle api sul finocchio, il profumo dell’erba appena tagliata, il fruscio delle foglie, una lucertola in fuga».
Leggere il libro di Évelyne Bloch-Dano è un’esperienza sensoriale ragguardevole. Giardini di carta. Da Rousseau a Modiano (Add Editore, pp. 224, euro 16, traduzione di Sara Prencipe), come nel desiderio della sua autrice, si deve guardare ma anche ascoltare, sentire, gustare e toccare. Porta in sottofondo il rumore lieve e graffiante dell’inesorabilità, qualcosa che scorre e si tende. In divenire. Insetti, animali e piante, profumi a tratti violenti e colori intensi, questo libro prezioso ed elegante si dispiega in un lungo percorso tra letteratura e filosofia francese.

Affonda con fermezza in alcune biografie illustri e si aggancia a un tema che è quello del giardino inteso come luogo attraverso cui accedere alla letteratura, e viceversa.
«Ho sognato un libro che si apra come si spinge il cancello di un giardino abbandonato», affidandosi a Christian Bobin, Évelyne Bloch-Dano ricorda di come sia arrivata a pensare un volume simile. E ha lo sguardo che luccica, perché le origini della sua intenzione la riportano dritta all’infanzia, in un prolungamento di sé sia simbolico che materiale.

«Da bambina – ci racconta – ho vissuto in un piccolo appartamento a Parigi quindi l’unico giardino che ho potuto conoscere era quello pubblico, il giardinetto della Porte de Champerret o il sontuoso Parc Monceau. E poi c’era quello dei miei nonni in Lorena. Gli altri li immaginavo attraverso i libri che leggevo. Per lungo tempo, il giardino è stato legato proprio all’immaginario e al sogno, alla possibilità di figurarmelo nella mente».
Senza allora un’esperienza diretta e con un incrollabile amore verso la scrittura «negli anni ho amato quelli degli altri: i luoghi delle vacanze, le case di campagna dei miei compagni di scuola o i giardini profumati di lillà che mio padre e io costeggiavamo pieni di invidia».

Una scrittura visiva che Bloch-Dano conferma essere in diretta relazione alle immagini. Quando ha tenuto il corso all’Università popolare del Gusto in Normandia, il tema dei giardini l’ha introdotto proprio attraverso quadri e foto, «un metodo didattico che è stato apprezzato da chi ha seguito le lezioni perché arrivare alla scrittura dall’immagine apre e agevola nuova forme di percezione. Il contrario sarebbe stato forse didascalico».
Le descrizioni dei giardini di Rousseau, George Sand, Proust, Balzac e anche Colette fino ad arrivare a De Beauvoir, Sartre e Marguerite Duras sono cucite a doppio filo con la loro produzione teorico-narrativa. I capitoli che riguardano autori e autrici sono preceduti da una densa parte riguardante una breve storia del giardino.

Dalle origini che legano il giardino alla mitologia, la religione e le sue scritture, «la società romana è stata però la prima a portare il giardino all’interno della casa, attraverso gli affreschi e le rappresentazioni che da subito mi hanno dato l’idea del rifugio. Un luogo dove si va a riposare. Molto diverso quindi da ciò che hanno significato i giardini nel medioevo, più legati come sono stati al senso religioso fin dalle loro forme. Il rinascimento italiano mi ha invece suscitato la riflessione sul potere, per questo mi sono spinta verso i Medici e anche i Papi». Interrogando l’idea del giardino in relazione al paesaggio si apre a questo punto la straordinaria stagione francese: Versailles, i giardini geometrici e l’uso della prospettiva e il disegno architettonico per esempio delle fontane. Un progetto che arriva fino al XVIII secolo e alla espressione «romantica» di un luogo sensibile delle emozioni.

Ogni inserto che riguarda scrittrici e scrittori è per Évelyne Bloch-Dano un rintocco di ciò che ha vissuto in prima persona. Una soglia sottile, del tremore eppure pulsante che la trascina nelle radure sensoriali che ha voluto esplorare. Per esempio ha diciotto anni, sulla spiaggia di Sagres, nel sud del Portogallo, quando finisce la lettura di Alla ricerca del tempo perduto e l’Algarve era ancora una regione selvaggia. Nonostante l’asma e l’impensabilità di un Proust giardiniere, i suoi libri sono un’esplosione di fiori e giardini reali e ricreati. Questo le insegna a osservare la complessità della narrazione con occhi disincantati.
Si tratta dunque di universi chiusi come romanzi che si ripiegano su se stessi come le relazioni andate a male o forse sono aperture – sempre e comunque – nella freccia del tempo e dell’incanto della natura? Cosa insegna infine il desiderio di circoscrivere la natura? George Sand per esempio si immerge con il suo stesso corpo nel giardino. Lo maneggia, lo muta e ci lavora duramente. Il senso della natura parziale acquista in lei il tratto di universalità; avverte la gratitudine per ciò di cui fa parte, un’esigenza «fisica e dei sensi come bisogno di esistenza».

Le ultime settimane di vita, Rousseau le trascorre a Ermenonville. Della sua decima camminata in mezzo al verde, riportata in Fantasticherie del passeggiatore solitario, il filosofo annota: «Non passa giorno che non ricordi con gioia e intenerimento quell’unico e breve tempo della mia vita in cui fui pienamente me stesso, senza contaminazioni e ostacoli, e in cui posso dire veramente di aver vissuto». Nonostante il trasporto tuttavia non pensa mai di avere cura del luogo che percorre e che tanto ha giovato alle sue meditazioni.
«Ho voluto cominciare il volume proprio con Rousseau – racconta Évelyne Bloch-Dano – perché vi è in lui una svolta di mentalità riguardo la natura. Da un lato è il ricordo di una felicità passata che si interpella nella memoria, dall’altro la pace finale, il trovare finalmente requie dopo il tormento che ha distinto la sua vita. Ho trovato delle affinità con la mia esperienza perché anche io credo che il giardino rappresenti la vita e la morte».

C’è però una differenza sostanziale tra la scrittrice e Rousseau perché distillare gli spazi che l’hanno accolta ha significato per lei intrattenere una relazione con la terra e ciò che essa rappresenta. «Il giardino è una natura in riduzione. Ci sono le stagioni – prosegue – e nel loro scandirsi ho potuto osservare il trascorrere del tempo, le cose che nascono e le cose che muoiono e che non si possono fermare. C’è un senso inarrestabile che rassicura. Nel mio caso personale, dopo la morte violenta di mio padre, c’è stato un preciso momento in cui il giardino e la relazione con le mie piante mi hanno insegnato cosa stavo provando. Tagliavo i petali a un’ortensia e ho scoperto inaspettatamente un bocciolo. Ecco che in quel mio gesto ho avuto la sensazione consapevole di dover lasciare andare le cose che non possono essere fermate. Mio padre, come il mio dolore e i petali. Ho lasciato andare nella generatività della vita che si manifestava davanti ai miei occhi. Non c’è niente di meditativo ma di pratico. È stato il gesto che mi ha orientato nel fare ordine».

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SCHEDA

Évelyne Bloch-Dano è scrittrice, giornalista del periodico «Magazine Literaire», e autrice di saggi, biografie e scritti autobiografici. I suoi volumi si concentrano in particolar modo su biografie femminili. Quindi «Madame Zola» (1997), «Flora Tristan» (2001), «Madame Proust» (2004, e «Le dernier amour de George Sand» (2010). Ha scritto anche saggi sulla relazione tra natura e cultura tra cui «La fabuleuse histoire des légumes» (2008), e «Giardini di carta» (2016). Il suo sito ufficiale è http://www.ebloch-dano.com/