La storia del negazionismo è quella di un’idea contagiosa in cerca di ambienti nei quali riprodursi vantaggiosamente: di un meme, direbbero gli studiosi dell’evoluzione culturale. Una tesi anti-storica, già concepita dagli stessi perpetratori all’epoca dello sterminio che, dal dopoguerra in poi, ha dovuto sviluppare nuove strategie di sopravvivenza in una cultura che le è ostile, specie da quando la Shoah è stata riconosciuta come l’evento fondativo dell’identità europea post-bellica. Quali sono queste strategie? Il successo comunicativo del negazionismo è legato alla sua capacità di incamerare e rimescolare elementi che sarebbero alieni al suo codice genetico: primo fra tutti il principio della libertà di espressione.
A ripercorrere la parabola del negazionismo si colgono le spiccate capacità adattive di questo meme, per un trentennio circoscritto ai suoi focolai postbellici, perlopiù di estrema destra, dove si riproduce quanto basta per sopravvivere in forma quasi asintomatica. È nel 1978-9 che, sull’onda del caso Faurisson, comincia a propagarsi nel dibattito pubblico. Nel crogiolo delle polemiche sulla banalizzazione e sulla sacralizzazione della memoria (scatenate dal successo planetario della miniserie tv Holocaust la tesi negazionista si aggrega surrettiziamente ad altre formazioni culturali in rapida espansione. Tra queste: la critica allo sfruttamento commerciale e politico dell’Olocausto; l’affermarsi del paradigma vittimario come matrice di identità dolenti e rivendicative che si contendono la «palma della sofferenza»; e, soprattutto, l’idea che Israele tragga illeciti vantaggi dal trauma della Shoah per monopolizzare lo statuto di vittima assoluta, come tale al riparo da ogni biasimo o contestazione

Non si tratta di argomenti immediatamente ascrivibili alla destra fascista. Al contrario, molti di essi sono prerogativa del pensiero critico della sinistra anti-colonialista e anti o post-sionista. Il successo di Faurisson e dei suoi epigoni è dovuto alla scelta retoricamente vincente di camuffare la tesi dei nazisti con argomenti anti-imperialisti, anarcoidi e vittimistici che ne allargano il bacino di utenza, confondendo i ruoli e i piani del discorso. Lo dimostra (tra l’altro) l’appoggio a scatola chiusa che Noam Chomsky presta a Faurisson in una lettera del 1980 in cui definisce il negazionista francese «una specie di liberal relativamente apolitico». Al di là della diagnosi a dir poco discutibile, Chomsky non entra nel merito dell’argomento negazionista in sé, sul quale non si pronuncia, ma difende a spada tratta il diritto di formularlo senza incorrere in sanzioni (Voltaire, eccetera).
Curioso paradosso: i negazionisti riabilitano coloro che bruciavano i libri al grido di «le idee non si censurano». Ma fa sistema con un’aporia di segno opposto: la pretesa di combattere la recrudescenza delle tesi naziste per mezzo della censura. Si potrebbe discutere a lungo se il divieto di esprimere opinioni obliquamente antisemite costituisca o meno una violazione dei principi democratici fondamentali. Resta comunque la percezione diffusa, e non del tutto immotivata, che un simile divieto, specie quando sancito per legge, strida con i valori libertari sbandierati dalle democrazie occidentali

Gli anni ottanta segnano un picco di visibilità del negazionismo europeo che i media presentano come un argomento scabroso con cui occorre fare i conti per definire i confini del discorso tollerabile. I negazionisti in cerca di notorietà imparano a fare leva proprio sulle reazioni di ripulsa che i loro discorsi generano, al contempo invocando i più alti princìpi democratici per deviare i contraccolpi delle loro provocazioni. Di qui, i tentativi di debellare l’insidia per mezzo di potenti antivirus: i primi provvedimenti disciplinari e, dagli anni novanta, l’istituzione di specifiche leggi che comminano multe e sanzioni a chiunque neghi i crimini contro l’umanità. E tuttavia, lungi dallo sconfiggere il negazionismo, le leggi della memoria gli consentono di parassitare altri memi, come quello della libertà di espressione, e di sfruttarli a scopi propagativi

Si capisce perché negli ultimi quindici anni la rete sia diventata l’habitat ideale del negazionismo. Non si tratta solo dei vantaggi tecnici che il mezzo offre: economicità, processi di disintermediazione, anonimato, viralizzazione dei contenuti, possibilità di aggirare qualsiasi censura… In rete il duplice paradosso imbricato della negazione (che sostiene tesi razziste per mezzo di argomenti libertari) e della sacralizzazione (che sostiene tesi antirazziste per mezzo di strumenti anti-democratici) produce effetti esplosivi. È nella natura porosa di Internet raccogliere i detriti e i reietti del sistema, proprio in nome dell’ideale libertario di cui la rete è – o pretende di essere – la massima espressione. Sottomessa soltanto al profitto dei gestori, promette di realizzare il sogno di un’informazione gratuita, orizzontale, protesa verso lo scambio aperto di conoscenze utili al progresso dell’umanità. E tuttavia questa gratuità ha un prezzo. La mancanza di filtri – e di fini – lascia passare tutti gli scarti della cultura «ufficiale», accreditata o seria che dir si voglia. Il web si popola delle più disparate teorie del complotto, imperniate sul concetto che «tutto quello che vi hanno insegnato a scuola è falso», ragion per cui chiunque abbia una tesi fragile da propagandare trova asilo in rete. Anzi, si inorgoglisce dei rifiuti che subisce nel mondo offline, interpretandoli come altrettante conferme della validità delle sue tesi: «se il Sistema mi ostracizza, significa che ho ragione». E non sono solo le teorie del complotto a proliferare in rete. Altri generi vi attecchiscono con successo: la pornografia, le curiosità morbose, i freak,il grottesco e la profanazione carnevalesca di ciò che la cultura «ufficiale» ha decretato essere venerabile e sacro. Il negazionismo ha elementi in comune con tutti questi generi deformi e, anche per questo, negli ultimi anni la sua presenza in rete si è molto accentuata. Nello spazio virtuale i nuovi antisemiti si ritagliano delle nicchie protette e allungano i sensori verso l’esterno, alla ricerca di nuovi simpatizzanti

Avviene così che siti non apertamente razzisti ospitino interventi antisemiti in nome esclusivo della libertà di espressione. Alcuni divulgatori del verbo negazionista lanciano le loro provocazioni in blog aperti, scatenando flamewars che rimettono in circolazione frammenti dell’archivio antiebraico, propagandoli oltre i focolai dell’estrema destra. Il successo di Dieudonné in Francia è un eloquente segnale di una simile fuoriuscita (cosa c’entrano i banlieusards con il Front National?). Ed è proprio questo il fenomeno da contrastare con tutti i mezzi possibili, inclusa una capillare campagna di informazione e di addestramento, fin dai banchi di scuola, all’uso del pensiero critico, in rete come altrove. Bisogna privare il negazionismo di ogni prestigio anti-establishment affinché il fenomeno rientri nei suoi bacini d’origine, dove lo si può osservare e contrastare per ciò che è, e non per ciò che finge di essere. Bisogna isolare il virus, circoscriverlo e metterlo in quarantena, visto che non lo si può eliminare del tutto e che – fuori di metafora – l’istituzione di leggi specificamente anti-negazioniste ottiene l’effetto opposto di ricompattare lo sgangherato popolo della rete attorno a un unico principio chiaro ed elementare: la difesa della libertà di espressione, ossia dell’unico valore etico di cui la rete si fa portatrice.