Tra i film che hanno riempito lo schermo del Grand Palais Lumière quest’anno, Drive my car è quello che ha messo tutti d’accordo. Per provare a spiegare perché, bisogna in un primo momento esporre il progetto del film rispetto all’ambizione di un melò tradizionale, che è quella di farci sentire quello che provano i protagonisti dell’intrigo. Nell’adattare con molte libertà la cortissima novella «Drive my car», contenuta nella raccolta di Haruki Murakami Uomini senza donne (Einaudi 2015), il regista giapponese Ryusuke Hamaguchi ha messo l’asticella ben più in alto. Un piano al di sopra, per così dire, di altri drammi visti quest’anno alla Croisette. Si tratta di farci scoprire i personaggi nel momento stesso in cui questi si rivelano a sé stessi e colgono il senso del proprio passato. E, quindi, riuscendo a farlo passare.

NON CI RESTA che spiegare come Hamaguchi riesca a dare una forma estetica a questo concetto che, come vedremo, sfida i limiti dell’arte drammatica. Abbiamo già avuto l’occasione di notare come la competizione ufficiale sia stata organizzata attraverso un principio di accumulazione. E come, all’ombra del Casinò, il film di apertura sia investito del ruolo di crupier, ché distribuisce le carte con le quali tutti gli altri film, pur così diversi tra loro, si trovano a giocare. La coppia di Drive my car potrebbe essere quella, o una parallela, di quella che abbiamo già incontrato in Annette. Sia lui che lei sono persone di spettacolo.

Oto è sceneggiatrice – più tardi scopriremo che in passato era stata attrice. A sua volta, il marito Kafuku è attore e regista di teatro. Il quadro in cui si muovono è quello, lussuoso e sofisticato, tipico del melodramma. Quando i due sono a letto, lei comincia a raccontare delle storie fantasiose. Tutto sembra andare bene quando lui, per un volo annullato, torna a casa e trova lei tra le braccia d’un giovane attore della televisione. Contro ogni attesa, Kafuku non interviene. Basito ma calmo, esce non visto e passa la notte in un hotel…

Abbiamo detto abbastanza. Nei suoi primi quaranta minuti, prima dei titoli di testa, Drive my car sembra esporre tutto il proprio gioco. E lo spettatore inevitabilmente cerca di rispondere alle domande che gli vengono in testa. Dalle più impegnative: perché lui non ha detto nulla alla moglie? Alle più triviali: perché Kafuku tratta la sua vecchia Saab con la cura che si riserva a una cosa sacra? Ognuna di queste domande, e molte altre, troveranno risposta nei centottanta minuti che seguono. Sul momento, lo spettatore ipotizza, né azzeccando né sbagliando, nella misura in cui i personaggi stessi non conoscono ancora la verità delle proprie azioni. Ed è precisamente in questo che Drive my car è eccezionale, e così giusto rispetto al movimento stesso della vita. Nella vita, infatti, molti dei nostri atti hanno un significato che non ci appare immediatamente, che alle volte mettiamo molti anni a capire. E che in qualche caso non troviamo mai definitivamente.

La rivelazione a se stesso non è né uno strappo, né un tornante. È un lento processo. Il film lo incarna attraverso la vecchia Saab di lui e la sua andatura imperturbabile. Esattamente come abbiamo visto in Serre-moi fort di Mathieu Amalric, l’automobile è una sorta di Camera verde su ruote. Nella macchina, il protagonista colleziona infatti le reliquie dei propri lutti. Certo ci sono degli incontri, come nella guida ci sono dei cambi di marcia. Fondamentale, per Kafuku, è quello con l’autista che il festival gli impone e che lui in un primo tempo rifiuta, come se sapesse già che quell’incontro con una ragazza che ha l’età che avrebbe avuto sua figlia, se non fosse morta a tre anni, lo porterà in un luogo che è doloroso affrontare.

Ma è difficile dire se questo incontro sia reale o immaginario – una scena a tavola ci fa pendere per la seconda ipotesi. Se questa nuova coppia avanza senza strappi, d’altra parte non fa altro: avanzare, andare sempre oltre – che in questo caso vuol dire tornare ad un passato oscuro per entrambi, al punto di essere quasi indicibile.

ABBIAMO veramente spiegato come il film riesca a farci assistere alla ricerca e alla scoperta di sé dei personaggi? No, se manchiamo di descrivere il modo con cui Hamaguchi fa entrare il teatro e in particolare Chekov nel suo gioco – che nella novella invece erano solo evocati. Perché nulla, assolutamente nulla, in questo film è scenografico: ogni elemento è rilevante per la storia. Alla fine, nulla ci sembrerà astratto o di troppo. Nella sua ricerca, Kafuku imparerà qualcosa sul teatro che ignorava. Durante tutta la residenza a Hiroshima, Kafuku sembra perso nel suo rapporto con lo Zio Vanja, che deve mettere in scena. Durante lunghe ore chiede ai suoi attori di leggere e rileggere il testo, evitando di cadere nell’interpretazione. Riuscirà a ritrovare il senso del testo grazie all’incontro con un’attrice muta, che recita con la lingua dei gesti coreana il ruolo di Sonia.

Eccoci tornati al problema dell’inizio, come si fa a rendere vera, ovvero subitanea, la comprensione di un’emozione messa in scena? Come si fa ad avere, con un testo, lo stesso rapporto che si ha con la vita? Sarebbe il momento di posare la chiave di volta sulla nostra analisi del film. Ma ce ne asterremo. Non per sadismo, ma perché sappiamo che questo splendido melò troverà presto un posto nelle sale italiane (distribuito da Tucker Film). Certo, se non fosse in versione originale, sarebbe tragico. E se quello che abbiamo scritto avesse senso, allora vedrete da voi come il film riesce a chiudere il cerchio e a risolvere il paradosso della scoperta di quello che si sa già. La macchina è là, a voi guidarla.