Nelle sale del museo civico, all’interno del castello di Barletta, Peter Campus, insieme a sua moglie, la fotografa Kathleen Graves, e al suo amico italiano, il videoartista Antonio Trimani, finisce di allestire alle pareti i monitor con la sua nuova serie di installazioni: Lobster Boats, Ponquogue Fish, Teak, ecc. Sono immagini fisse, paesaggi urbani ma soprattutto scorci marini, filmati nei dintorni di Long Island, luogo in cui l’artista newyorkese si è trasferito da alcuni anni. Ma sono vedute pixellizzate, rielaborate in modo da diventare astratte. Guardandole da una certa distanza, cogliendole in uno sguardo d’insieme, queste immagini hanno ancora dei contorni figurativi; ma, avvicinandosi gli elementi si percepiscono sotto forma di quadrati e rettangoli dai colori pulsanti. Da un lato in questi lavori Campus conferma il suo interesse per il fotografico, o meglio per un’immagine in movimento che tende alla stasi, al congelamento; dall’altro si avvicinano al pittorico. E la pittura è stata il primo amore di Campus fin da quando era adolescente. Campus, più che rispondere a domande sul passato preferisce parlare del presente e di questa sorta di pittura digitale che, da molti anni, costituisce una nuova fase della sua attività di artista. Ma non si può certo dimenticare che questo signore di 77 anni è stato un pioniere della videoarte, a partire dal 1971, anno in cui realizza lavori monocanale come Dinamic Field Series e Double Vision. In un periodo in cui la videocamera era soprattutto fissa – un po’ come la macchina da presa nei primordi del cinematografo, quando ancora non esistevano i diversi «piani» e non era stato ancora inventato il montaggio –, Campus la muove con estrema libertà, come si evince negli sketch di Dinamic Field Series: filmandosi i piedi che ininterrottamente calpestano il pavimento ligneo del suo studio, oppure sospendendo in alto con una corda la videocamera che, con un movimento rotatorio, lo riprende avvicinandosi e allontanandosi.
Anche Double vision è all’insegna della mobilità assoluta: seppure in bianco e nero e a bassa definizione, questo lavoro contiene già l’estetica che informerà i lavori successivi di Campus, l’utilizzo del dispositivo per esplorare il rapporto tra individuo/visione/spazio, secondo una prospettiva percettivo-fenomenologica. Le videocamere sono due e producono appunto una visione sdoppiata, che si articola in diverse fasi (e azioni), intitolate «spostamento», «disparità», «convergenza», «fusione», ecc. Nel primo capitolo, per esempio, Campus miscela in dissolvenza incrociata le immagini prodotte da due videocamere che deambulano in un interno, nel secondo capitolo l’artista stesso entra in campo sdoppiato, nell’ultimo lo stesso ambiente è ripreso all’interno di un monitor posto sul tavolo. Lo spazio insomma è sempre il frutto di una duplicità del medium, che crea fratture e sovrapposizioni, mentre in seguito il discorso si trasferisce soprattutto sul rapporto tra dispositivo/corpo del performer. Ciò avviene quando, con il passaggio dal bianco e nero al colore e con l’utilizzo del chroma-key e di altri effetti, la videografia di Campus subisce un netto salto qualitativo. Il suo Three Transitions del 1973, resta ancora oggi il lavoro più famoso di Campus e tra i più celebrati della storia delle arti elettroniche. Attraverso la tecnica dell’intarsio e della dissolvenza incrociata in tempo reale, l’artista realizza tre brevi saggi sul paradosso dell’identità in rapporto alla tecnologia video: nel primo episodio Campus si apre un varco per entrare nella sua schiena; nel secondo cancella elettronicamente il suo volto per far emergere il suo «doppio»; mentre nel terzo dà fuoco alla sua immagine intarsiata in primo piano dentro una cornice. Three Transitions venne realizzato per la famosa WGBH-TV di Boston, una delle prime emittenti televisive a istituire un laboratorio per produrre video sperimentali, come ad esempio il programma The Medium is Medium, che conteneva lavori di sei artisti tra cui Kaprow e Paik. Lo stesso Stan van der Beek – film-videomaker inventore del Movie Drome e, quindi, di un modo espanso di fruire il cinema – aveva ottenuto una residenza presso questo network. Campus grazie alla WGBH-TV ha la possibilità, tra il 1973 e il 1976, di utilizzare tecnologie che non erano certo alla portata di tutti: ne scaturiscono anche altri lavori come Set of Co-incidence (1974), R-G-B (1974) o Four Sided Tape (1976), dove sperimenta intarsi, feedback, dosaggi di colore per mezzo di filtri, ecc. In alcuni casi, come in East Ended Tape (1976), Third Tape (1976) o Six Fragments (1976), gli effetti sono limitati o sono totalmente «naturali» (luce, fumo), concentrando la sua attenzione sull’atto performativo e sul rapporto illusione/realtà, magari utilizzando attori veri e propri e curando particolarmente messa in scena e costruzione delle singole inquadrature. Ma negli anni ’70 Campus realizza anche diverse installazioni a circuito chiuso (CCVC) come Interface (1972), dove lo spettatore si vede sdoppiato sotto forma di immagine video e, al tempo stesso, specchiato al rovescio, o Bys (1975) o, ancora, Aen (1976). Come osserva Wulf Herzogenrath, «l’interesse di Campus non ha nulla a che vedere con il narcisismo, ma con la questione dell’identità dell’uomo – il vero ego, il significato dell’ombra, la paura dell’alter ego, la ‘maschera dell’io’, il doppio». Negli anni ’80 Campus smette di lavorare con il video, si dedica per un lungo periodo alla fotografia di paesaggio, per poi ritornare ad adoperare la videocamera nella seconda metà degli anni ’90, girando Winter Journal. Da questo momento le opere dell’artista americano – che qualcuno ha definito visual haiku – sono soprattutto incentrate sulla natura, raccontata attraverso poche inquadrature accompagnate dalla musica e strutturate su un montaggio molto particolare, con sequenze re-incorniciate (reframed), inserite cioè dentro finestre, per restituire meglio la mobilità della visione, una «visione animale», come la definisce lui stesso.

Cosa ti ha spinto all’inizio degli anni ’70 ad avvicinarti al videotape e alle videoinstallazioni? Cosa cercavi in questo nuovo strumento che aveva cominciato a diffondersi da qualche anno in campo artistico?
Ho sempre voluto fare l’artista e ho iniziato a dipingere da quando avevo 13 anni, ma mio padre non mi permetteva di fare l’artista visivo e quindi mi sono iscritto all’Università per studiare cinema. In seguito ho lavorato nell’industria cinematografica come montatore. Anche per questa ragione per me è stato difficile affrancarmi da un tipo di formazione del genere. Poi ho scoperto il video, che mi ha subito affascinato. Il video era immediato, si poteva fare, guardare, rifare, riguardare, quindi corrispondeva molto di più a quello che avevi in testa e alle scelte fatte, rispetto al cinema che, all’epoca, ti costringeva a lunghi processi e soprattutto all’attesa dei risultati.
Come mai non hai mai girato film sperimentali?
Ne ho fatto uno, per la verità, ma lo considero molto brutto e spero che nessuno lo veda mai.
Però ami ancora molto il cinema, immagino…
Assolutamente si. Quando avevo 13 anni andavo sempre in un cinema a New York dove proiettavano film inglesi. Ero un appassionato soprattutto di Michael Powell e di capolavori come Red Shoes o Peeping Tom…
Un’altra componente che mi sembra fondamentale nei tuoi primi lavori è quella performativa. Alcuni video monocanale sono una sorta di videoperformance, cioè si tratta di azioni spesso compiute da te stesso, ma pensate per sfruttare le potenzialità del dispositivo.
Devo dire che all’epoca ero molto narcisista, ma l’attitudine per la performance deriva dal fatto che negli anni ’60 ero vicino al Judson Dance Theater, un movimento di performer che si riuniva al Judson Memorial Church nel Greenwich Village. Ed è proprio qui che ho girato il mio primo lavoro in video. Di questo ambiente facevano parte figure come Yvonne Rainer Steve Paxton, ma anche Terry Riley, Trisha Brown e altri…
Cosa ricordi, più in generale, dell’underground newyorkese?
È stato un periodo bellissimo, molto ricco di stimoli. La sera a Soho – all’epoca neppure si chiamava così – si andava a vedere uno spettacolo della Rainer, poi ci ritrovavamo ad ascoltare un brano di musica a casa di Philip Glass o di Steve Reich, quindi uscivamo nuovamente e andavamo a bere e a parlare di arte. Non c’era niente di organizzato, ci si passava la voce, chi sapeva ci andava e qualcosa avveniva, senza essere filmato o registrato in alcun modo. Semplicemente accadeva. Purtroppo è durato poco, quattro anni circa, tra il 1968 e il 1972. Anni magici e sospesi. Dopo, l’arte è ricominciata ad essere più commerciale, tutti hanno smesso di lavorare insieme e hanno iniziato a competere. Tutto è finito ed è stato un vero peccato. Penso che la scienza abbia un merito rispetto all’arte: gli scienziati lavorano quasi sempre insieme, gli artisti no. Anche per questa ragione mi è piaciuto esporre al Castello di Barletta insieme a mia moglie Kathleen e ad Antonio Trimani. Siamo tre persone distinte che lavorano sugli stessi temi con modalità diverse, ma alla fine c’è una convergenza, affinché il visitatore esca dall’esposizione dopo aver colto un unico significato che lega i nostri lavori.
Quanto ha contato la formazione di psicologo nella tua arte?
Quando studiavo psicologia, oltre mezzo secolo fa, c’erano molte ricerche sulle funzioni del cervello e sulla sensorialità. Proprio allora si cominciavano a definire le parti cognitive del cervello, studiando come si erano sviluppati i sensi negli animali e negli umani. Sono sempre stato affascinato dagli aspetti legati alla percezione e, di conseguenza, questo interesse ha attraversato tutto il mio lavoro.
Tuttavia non hai mai insegnato psicologia…
No, con la laurea in psicologia ho insegnato esclusivamente nelle facoltà universitarie di arte e questa cosa ha sempre suscitato grande ilarità nei miei colleghi.
Cosa ricordi dell’esperienza presso la WGBH-TV di Boston?
Avendo lavorato per dieci anni nel cinema commerciale, mi trovavo a mio agio negli studi cinematografici. E questo mi ha molto aiutato quando ho realizzato i miei video alla WGBH, perché c’erano dei tecnici molto preparati e attrezzature meravigliose. Inoltre avevo un budget a disposizione (tra l’altro un ruolo che ho ricoperto nel mondo del cinema era proprio quello di elaborare preventivi e bilanci). A differenza degli altri artisti, che preferivano esaltare la bassa risoluzione dell’immagine video, a me piaceva l’immagine di qualità, a colori. iI colore è sempre stato importante per me. Più che mai lo è adesso. L’unico handicap era non poter lavorare nel mio atelier oltre al fatto che non sempre l’équipe capiva cosa stessi facendo, a cominciare dal produttore Fred Barzyk che ripeteva: «Cosa sta facendo questo pazzo?». Ad ogni modo la ricordo come un’ottima esperienza.
Come mai nel 1979 hai smesso di fare video e ti sei dedicato alla fotografia? Hai pensato che una fase del tuo lavoro fosse conclusa, che la sperimentazione su questo medium si fosse esaurita?
Ho smesso di fare video perché volevo che l’immagine si fermasse, ma mi sono accorto di non essere un fotografo. Quello che mi interessava cioè non era la fotografia, ma congelare l’immagine, creare un fermo-immagine all’interno del video. Questo procedimento mi piace poiché crea molta tensione. A differenza di una fotografia dove chi guarda non si aspetta che l’immagine si possa muovere, nel video invece si. Il grande cambiamento nella mia estetica è avvenuto nel momento in cui ho smesso di guardare dentro e ho cominciato a volgere il mio sguardo verso l’esterno. Ogni volta che concepisco un video ho in mente una visione chiara e cerco di lavorare con quello che sento. Ciò che avviene quando filmo un’immagine della natura è l’interazione che si crea tra me e il soggetto. Porto spesso ad esempio il fotografo tedesco August Sanders, specializzato nei ritratti: quando gli è stato impedito da parte del regime nazista di fotografare persone comuni, è stato costretto a fotografare la natura. Molte vedute del Reno non sono belle formalmente, anche perché sono troppo scure, ma sono bellissime per la forza emotiva che emanano. Devo dire che mi ispiro per il mio lavoro a questo tipo di intensità.
Negli anni ’90 sei ritornato nuovamente al video confrontandoti con l’immagine numerica, come hai vissuto questo cambiamento dall’analogico al digitale?
Quando insegnavo avevo uno studente coreano molto ricco che acquistò uno dei primi sistemi digitali. Da docente ho visto il suo lavoro migliorare totalmente, così ho pensato che avrei dovuto comprarne uno anche io, ma non ero ricco e quindi ho trovato qualcuno che mi finanziasse. I progressi li ho visti immediatamente, specialmente nel montaggio.
Mi sembra che il concetto di tempo nei tuoi video, anche rispetto al discorso che facevamo prima sul rapporto tra immagine fissa e immagine in movimento, sia fondamentale.
Nei miei lavori non penso al concetto di «tempo», ma piuttosto mi viene in mente la formula dx/dt che calcola il movimento di un punto rispetto al tempo. Le cose che vediamo sono piuttosto il frutto della connessione di tanti diversi avvenimenti stringati insieme. Come ormai sta scoprendo la fisica odierna, la percezione non è quella del tempo meccanico quanto del tempo percepito. Preferisco dunque usare la parola «durata», che è più vicina alla mia poetica. Quando qualcuno mi chiede quanto dura un video, gli rispondo che dura ad esempio 25 minuti e 32 secondi, ma i miei lavori sono concepiti sia per una persona che li vede per dieci secondi e poi se ne va, sia per chi li vuole guardare per intero. Ciò che cambia è la differenza nell’esperienza visiva: chi sceglie di restare più a lungo, entra, rimane, si rilassa e quindi passa da una visione meccanica a una dimensione di pura percezione temporale. È come quando si fa un viaggio in automobile e, dopo un po’, si perde il senso del tempo, poiché si sta semplicemente andando da un punto all’altro. È come stare fermi. Bene, io miro a condurre lo spettatore in una dimensione extratemporale.
Come mai nelle tue installazioni non usi la videoproiezione ma solo monitor, quindi dispositivi dotati di una cornice?
È una domanda che richiederebbe una risposta molto lunga e articolata. Diciamo intanto che alcuni artisti – e praticamente la totalità degli studenti – vogliono realizzare solo lavori con le videoproiezioni. Ma i colori vengono slavati, non si raggiunge l’intensità precisa del colore e, inoltre, non si ottiene mai un nero assoluto, c’è sempre un po’ di luce che disturba l’immagine. Tutti problemi che spariscono adoperando schermi lcd o led che, tra l’altro, stanno diventando sempre più grandi e raffinati. Ma non c’è solo una motivazione tecnica, bensì anche concettuale. L’arte ha molto a che fare con la fisicità delle cose. Mentre quando guardi un film, parlo di un film narrativo, ti perdi, ti identifichi con l’attore, invece nell’arte è importante l’esserci, ma senza perdersi. Nell’arte si lavora con la materia e con le cose. Ripeto, sarà un po’ fuori moda ma mi piace che l’immagine non sia troppo grande, preferisco che la si guardi nel suo insieme con un colpo d’occhio. Osservare la superficie da un punto all’altro, proprio come un quadro in pittura, ha a che fare con la relazione che si crea tra questi due punti. Per me è importante percepire ciò che vi è dentro e fuori la cornice.
Nei tuoi video monocanale realizzati dopo il 2000, inoltre, ti diverti a ingrandire e rimpicciolire la cornice.
Ho bisogno di creare questo movimento nell’immagine, un po’ come gli animali che guardano in costante movimento. Anche gli umani lo fanno, ma negli animali percepiamo di più questa mobilità visiva. Il continuo variare della cornice ha per me molto a che fare con il senso, la sensorialità, la percezione e i campi visivi.
Anche nel passato non mi pare che, tuttavia, tu sia mai stato attratto dalle possibilità espanse dell’immagine in movimento, dalle installazioni pluricanale…
Quando facevo il montatore di film ho realizzato anche imponenti lavori su committenza, concepiti magari per essere proiettati su sei schermi all’interno di una fiera mondiale, ma per essere onesti non erano cose così innovative dal punto di vista del linguaggio, solo cinema un po’ più esteso. Mi interessava di più assistere all’evoluzione tecnologica nel campo televisivo. Per esempio ero affascinato dalle prime consolle della tv, con tanti monitor messi l’uno accanto all’altro che tramettevano i vari punti di vista e un regista che poteva sceglierle di volta in volta. Io restavo lì in studio a osservare. Uno dei programmi che guardo spesso si chiama Twentyfour, dal punto di vista del contenuto è orribile, ma affascinante tecnicamente perché è costruito sul punto di vista di 24 telecamere simultaneamente in funzione. È un po’ come guardare un film di Soderbergh, il quale lavora con le tonalità di colore, fa un cinema molto pittorico.
Parlando in termini di generi pittorici, possiamo dire che, rispetto ai tuoi video degli anni ’70, con i tuoi lavori degli ultimi vent’anni sei passato dal ritratto alla veduta?
Ma in qualche modo non c’è differenza. Prima mostravo il volto, ora rappresento ciò che quel volto – quindi il suo occhio, anzi il cervello – vede. È sempre lo stesso processo emotivo. Per costruire queste vedute posso impostare il video in modalità «remotata» e andarmene, lasciando che faccia delle riprese in un certo arco temporale; oppure invece stare lì, guardare, sentire e quindi creare un’interazione tra me e la natura. Ciò che io mostro nel video è quello che la mia psiche compie insieme alla natura. Uno dei grandi problemi dell’umanità è che non abbiamo più la consapevolezza di essere un tutt’uno con il mondo circostante. Siamo distaccati. E questa perdita, questa non-consapevolezza ci conduce purtroppo a un lento suicidio.