La lotta al terrorismo approda in consiglio dei ministri. Sanzioni penali per i foreign fighters, gli organizzatori e fiancheggiatori, misure di sicurezza, ritiro del passaporto, disciplina rigorosa per esplosivi e sostanze pericolose, oscuramento dei siti web che inneggiano al terrorismo, forse procura nazionale dedicata. Nel complesso, limature delle leggi esistenti senza novità eclatanti. E non si parla della questione Pnr (passenger name record), su cui discute l’Europa.

Il Pnr non è una mossa banale e scontata. Si raccolgono e scambiano i dati di tutti i passeggeri, su tutte le aerolinee, per tutte le destinazioni. Possono essere compresi anche dati per altro verso sensibili. Ad esempio, dati su condizioni fisiche particolari, stati di salute, malattie, che in un contesto diverso sono e rimangono riservati, e che diventano visibili quando si sale su un aereo. È un controllo di massa. E perché poi limitarsi agli aerei? E gli autobus, i treni, le navi?

Nel 2011 il Parlamento europeo aveva adottato sul Pnr una risoluzione (2012/C 74 E/02) in cui definiva i principi di necessità e di proporzionalità come fondamentali per la lotta al terrorismo. In specie, si chiedeva che la raccolta dei dati fosse limitata a quanto necessario per raggiungere obiettivi dei trattati Ue. E si invitava la Commissione ad esaminare alternative meno invasive. Proprio per la violazione del principio di proporzionalità la Corte di giustizia Ue (C-293/12 e C-594/129, 8 aprile 2014) ha censurato la direttiva 2006/24/Ec sulla conservazione dei dati personali nelle comunicazioni elettroniche. Tuttavia, oggi da più parti si chiede al Parlamento europeo di superare la risoluzione del 2011, in cui null’altro si chiedeva che il rispetto dei principi costituzionali Ue.

I singoli Stati già si muovono. La legge francese 2014-1353 del 13.11.2014 prevede il divieto di espatrio, il ritiro del passaporto e della carta d’identità nazionale qualora ci siano «des raisons sérieuses» di ritenere che si intenda partecipare ad attività di terrorismo o che comunque possono comportare rischi per la sicurezza pubblica al ritorno. In Gran Bretagna è in discussione un Counter-Terrorism and Security Bill (Hl Bill 75), che prevede il sequestro del passaporto per impedire l’espatrio, e il divieto di ingresso salva autorizzazione del Segretario di Stato. Si aggiungono limitazioni sulla residenza, e richiesta ai vettori di informazioni sui passeggeri di aerei, navi o treni. Si prevedono altresì interventi repressivi sui siti internet nella legge francese prima citata, e l’obbligo per i gestori di servizi di telecomunicazione di raccogliere e conservare dati su richiesta dell’esecutivo nel Data Retention and Investigatory Powers Act 2014 britannico.

La tendenza è chiara: per combattere il terrorismo si abbassa la guardia su libertà e privacy. È nella linea del Patriot Act Usa, che ha previsto tra l’altro si procedesse in segreto a raccolte di dati, intercettazioni, perquisizioni delle abitazioni e dei luoghi di lavoro, anche in assenza di specifici sospetti di coinvolgimento in atti di terrorismo. Eppure, rimane isolata la dichiarazione di incostituzionalità di un giudice federale (Mayfield v. United States, 504 F. Supp. 2d 1023 (2007)). La stessa Corte Suprema non ha alzato barriere (Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010)). I guasti prodotti vanno in profondità, come dimostra il rapporto – solo in parte desecretato il 3 dicembre 2014 – del Select Committee del Senato Usa sui metodi usati dalla Cia, pudicamente definiti come tecniche rafforzate di interrogatorio (enhanced interrogation techniques). Ci consegna una galleria degli orrori.

Forse non tutti sanno che il Patriot Act ha trovato opposizione da sinistra, in nome della libertà, e da destra, per l’ingerenza governativa nel privato. È una scelta bipartisan che viene dal centro dello schieramento politico. Un estremismo di centro nato dalla paura.

Tuttavia, quale risposta da sinistra per la lotta al terrorismo? È un terreno difficile. Ma un punto va in ogni caso tenuto saldo: che la risposta efficace non è in tecniche orwelliane di spionaggio e controllo di massa. Del resto, proprio la Francia dimostra che Charlie Hebdo si poteva evitare già con la legge del novembre 2014. Invece, migliaia di cittadini europei reclutati per l’Isis, e un numero indeterminato di simpatizzanti, si spiegano più con il degrado e la desolazione di periferie abbandonate a se stesse – moderna forma di segregazione – che con l’eccesso di libertà di qualche sito internet o la predicazione di un imam radicale. È in quelle periferie la culla della rabbia e dell’estremismo di tanti giovani, che si sentono esclusi ed emarginati dalla società in cui vivono. Per questo qualunque politica di repressione può essere in ultimo efficace solo se unita a interventi inclusivi e di integrazione sociale ed economica.

Di tali interventi non v’è traccia nelle iniziative dei governi europei. A proporli, ci sentiremmo probabilmente dire che mancano – oggi, e per un tempo non breve – le risorse necessarie. Qui vorremmo le istituzioni ampiamente rappresentative che non abbiamo, e che ancor meno avremo se le riforme in discussione andranno in porto. Lasciandoci nell’insolubile paradosso che la storia ha spesso posto alle democrazie: se la libertà si difende davvero limitandola.