Coltivare cannabis per uso personale resta un reato. A confermarlo ieri è stata la Corte Costituzionale, nel non ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Brescia sul trattamento sanzionatorio della coltivazione di piante di cannabis per uso personale. La questione era nata per la disparità attualmente in essere tra due tipi di condotte, entrambe relative all’uso personale. Da una parte, appunto, la coltivazione fai-da-te, dall’altra l’acquisto di marijuana sul mercato nero ed illegale.

La prima fattispecie riconosciuta di gravità penale, la seconda perseguita con una sanzione amministrativa. Fu proprio questo a spingere la Corte di appello di Brescia a sollevare la questione dinanzi alla Consulta rispetto alle «disposizioni dell’art. 75 D.P.R. n. 309/90, nella parte in cui escludono tra le condotte suscettibili di sola sanzione amministrativa, qualora finalizzate al solo uso personale dello stupefacente, la condotta di coltivazione di piante di cannabis, in relazione ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e di offensività, quali ricavabili dagli artt. 3, 13, comma secondo, 25, comma secondo e 27, comma terzo, Carta Cost.».

La Corte, rigettando la «questione», non ha aiutato a superare questa incomprensibile divergenza che, a ben vedere, rappresenta anche un paradosso. Per chiunque voglia fare uso di cannabis converrebbe (da un punto di vista sanzionatorio) infatti più acquistarla sul mercato illegale, controllato dalle organizzazioni criminali, piuttosto che coltivarla a casa propria.

Già nel 1995 la Corte si pronunciò su questo argomento e, anche in quel caso, ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale che gli fu posta. In quel caso la motivazione fu che la coltivazione comunque avrebbe apportato un aumento della quantità di stupefacente disponibile sul nostro territorio nazionale, da cui la punibilità penale della condotta. Nell’attesa di leggere le motivazioni della bocciatura di ieri una cosa possiamo già dirla: la via maestra da seguire è quella legislativa. Il Parlamento e il Governo debbono farsi carico della questione droghe e, sulla scia di altri paesi, compresi gli Stati Uniti, andare verso la decriminalizzazione, la depenalizzazione e la legalizzazione, cambiando completamente strada rispetto alle politiche messe in campo fino ad oggi e che possiamo sintetizzare in poche parole: proibire, punire, sanzionare, arrestare, processare, incarcerare.

La questione relativa alle droghe non va trattata con demagogia e paternalismo populista, ma ancorandosi ai dati e alle evidenze. Noi lo stiamo facendo con la campagna «Non me la spacci giusta». La guerra alle droghe è fallita. Lo dicono esperti non accusabili di empatia o militanza movimentista. Ce lo dicono i numeri. Le 250.000 persone arrestate tra il 2006 e il 2014. Il miliardo di euro l’anno che spendiamo per tenere in carcere persone accusate di reati di droga. I miliardi di euro incassati dalle mafie e che potrebbero finire allo Stato sotto forma di tassazione. I 180 milioni che utilizziamo affinché le forze di polizia facciano rispettare la normativa anti-droga e che potremo invece utilizzare per reprimere il crimine organizzato. C’è bisogno di una rivoluzione pragmatica che lasci la morale fuori dal diritto.

Su questo la politica oggi deve impegnarsi e di occasioni ce ne sono due: la proposta di legge presentata dall’integruppo parlamentare Cannabis Legale e la Sessione Straordinaria dell’Assemblea delle Nazioni Unite sul tema delle droghe che si terrà nel mese di aprile a New York, e a cui l’Italia parteciperà con una propria delegazione guidata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando.

Così come buona parte della comunità internazionale anche il nostro paese è di fronte a un crocevia: può decidere di perseverare in una politica proibizionista che ha prodotto morti e disastri sociali; può continuare in quel solco ma moderandone l’impatto repressivo; può cambiare nettamente rotta. Noi crediamo che la strada da percorrere sia quest’ultima.

* Presidente Antigone e Cild