Amalia Pica (Nequén, Argentina 1978, vive e lavora a Londra) è la più giovane tra le quattro artiste – Ana Mendieta, Anna Maria Maiolino e Teresa Margolles – scelte per la XVI Biennale Donna di Ferrara Silencio vivo, a cura di Lola G. Bonora e Silvia Cirelli (visitabile fino al 12 giugno). Cresciuta in Argentina ascoltando la musica di Luis Alberto Spinetta e guardando (almeno all’inizio dei suoi studi, quando era allieva alla Escuela Nacional de Bellas Artes Prilidiano Pueyrredón di Buenos Aires, dove si è laureata nel 2003) al lavoro di artisti come Victor Grippo, Cildo Meireles, Lygia Clark and Hélio Oiticica, Pica è estremamente versatile nell’uso di mezzi diversi: disegno, fotografia, scultura, installazione e video. La sua poetica esplora la comunicazione, alla base della relazione degli esseri umani, e gli equivoci del linguaggio che troppo spesso portano all’incomunicabilità. «Gli equilibri delle interazioni sociali e l’importanza del dialogo come esperienza collettiva – scrive Silvia Cirelli in catalogo – sono i tasselli di una grammatica che mira all’analisi di una società schiacciata dall’ipertrofia della comunicazione, una comunicazione ormai quasi compulsiva, che purtroppo il più delle volte ostacola la comprensione, invece di facilitarla. Concentrandosi sulle contraddizioni del linguaggio, l’artista esplora i metodi di corrispondenza comunicativa, indagandoli però nella consapevolezza di quanto questi rispecchino l’evoluzione della società».

Amalia Pica, Switchboard, 2011-2012 (ph © Andy Keate, Courtesy l'artista)
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Ne è un esempio l’installazione Switchboard (2011-2012), basata sul concetto dei due barattoli collegati da un filo, rudimentale strumento di comunicazione per trasmettere le onde sonore tra due protagonisti (di quei «giochi» che, un tempo, si facevano da bambini, illustrati anche su I Quindici). «Le nuove possibilità di dialogo però, si costruiscono sul paradosso – continua la curatrice – perché se da un lato l’artista lascia nelle mani delle persone l’opportunità di generare messaggi, dall’altro gliela toglie anche. I fili che collegano i vari barattoli, infatti, sono posizionati in modo casule, rendendo difficile (o impossibile, a seconda della pazienza di ciascuna persona) capire quali lattine sono collegate fra loro. Lo spettatore, «ingannato» dall’artista, è costretto alla ricerca della corrispondenza perfetta, se effettivamente vuole giocare con il compagno, dall’altro lato del muro. I rimandi adolescenziali di Pica, suggeriti dall’utilizzo di coriandoli, arcobaleni, palloncini o, come in questo caso dai barattoli, ricordano quel momento dell’infanzia in cui i bambini sentono l’esasperata esigenza di farsi capire e di comunicare le proprie emozioni o pensieri. Quando però il dialogo fallisce, scatta la fantasia, perché è solo con l’immaginazione che si possono colmare quelle lacune lasciate dall’incomprensione verbale».

Amalia Pica, Palliative for chronic listeners, 2012 (ph © Gunnar Meier - Courtesy l'artista e KÖNIG GALERIE, Berlino)
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La riflessione sui metodi di corrispondenza nella comunicazione, in particolare sulle contraddizioni del linguaggio, è il punto di partenza del suo lavoro…
Arrivo ad indagare gli aspetti della comunicazione partendo da tre angoli diversi. Uno è quello che deriva dagli artisti degli anni ’60, come Ana Mendieta, quindi il rapporto tra arte e linguaggio. La gente solitamente dice «non capisco quest’opera». Allora, dove far leva per cercare di comunicare con l’arte? Sulla forma, sul linguaggio? Per questo sono partita dalle immagini che, in teoria, tutti dovrebbero comprendere. Immagini della scuola, in Argentina, che appartenevano al mio quotidiano. Ma, arrivata in Europa, quando pensavo che la gente potesse capire, mi sono accorta che non era affatto così. Tutto era diverso. Allo stesso tempo mi chiedevo perché facessi arte, cercando di darmi una risposta. Volevo comunicare qualcosa: questo è stato il punto di partenza. Sono anche interessata ai modi funzionali della comunicazione. Cosa succede quando la tecnologia non riconosce più un vecchio apparecchio, o quando il rumore crea un’interferenza? Prendere il via da qualcosa che dovrebbe comunicare, ma che non è più in grado di farlo, credo sia una metafora adatta per comprendere l’arte.

Ambiguità e paradosso sono sempre presenti nelle sue opere, come vediamo anche in «On Education» (2008), «Palliative for Chronic Listeners #1» (2012) e «Wireless Way in Low Visiblity (Recreation of the First non Cable Trasmission, as Seen on tv)» (2013) esposte in occasione della Biennale di Ferrara. Quanto è importante, poi, l’aspetto seduttivo del colore, delle forme?
Penso che l’aspetto seduttivo del colore e delle forme sia molto rilevante. Stabilisce il contatto. In una prospettiva teorica, esiste una declinazione del concetto di gusto, suggerito dalla filosofa Hanna Arendt, che lo considera come un punto d’incontro. Lasciarsi condurre dai sensi è il modo più diretto per entrare in comunicazione. Ecco, allora, che la seduzione di forme e colori possono essere convolgenti soprattutto nel tentativo di attirare a sé il proprio interlocutore. L’ambiguità, dall’altro lato, mi offre l’occasione di lasciare tutto aperto e possibile, perché voglio che il pubblico sia più partecipativo. Il paradosso, infine, è il riflesso del mio interesse per l’umorismo e le cose divertenti. Ma non mi piace il «paradosso logico» che prevede una spiegazione, trovo che sia più interessante l’assurdo per cui, ancora una volta, tutto è possibile.

Amalia Pica, Ferrara 16-4-2016 (ph Manuela De Leonardis)
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In un’altra intervista ha affermato che «l’arte è un modo di resistere alla mancanza di senso nelle cose, un disperato tentativo di dare senso a un mondo che è casuale e assurdo», nonché un modo per celebrare tutto questo….
Sì, torniamo al concetto di capire il significato delle cose. Quando facciamo arte, sia in quanto artisti che come pubblico, vogliamo capire il significatodi ciò che vediamo. Quindi, l’obiettivo è di mettere le cose in relazione le une con le altre e conferire loro un senso. È un grande esercizio. Ma il mondo di per sé non ha senso, perché sa essere crudele e orribile. C’è un lato oscuro che ci rende impossibile trovare il senso delle cose, però esistono delle coincidenze. Quindi l’arte ha il grande potere, da un lato di dare risalto alla mancanza di significato – perché concede tutto – e, dall’altro, di celebrare la sua assurdità.

Progetti futuri, oltre a quello di prendere la nazionalità britannica?
Sì (sorride) questo è il motivo per cui non posso allontanarmi dall’Inghilterra per troppo tempo! Ho un mucchio di progetti per la testa, ma nessuno ha ancora una forma precisa. Proprio a proposito della mia richiesta di prendere la nazionalità britannica, sto facendo molti disegni in cui cerco di trasformare la burocrazia, così opprimente, in qualcosa di gioioso. Quindi, sovvertire il concetto stesso di burocrazia. Mi interessano la gioia e la felicità come forma di sovversione.