L’Atlantide rinnovato, lo Stahl sconosciuto, il Lubitsch resuscitato. E, come da programma, anche una nuova scintillante copia di Captain Salvation, successone del 1927 firmato da John S. Robertson che solo un anno fa, alle Giornate del Cinema muto, occupava l’immagine ufficiale del festival con un fotogramma iconico scattato dalla grande Ruth Harriet Louise, scelto e voluto dal direttore Jay Weissberg come una sorta di anticipazione a ciò che avremmo visto nel 2018.
Queste e molte altre preziosità, tra ritrovamenti e restauri hanno movimentato il fitto programma delle Giornate dal 6 al 13 ottobre al Teatro Verdi di Pordenone: Ozu, Nomura, Mizoguchi, I promessi sposi del 1922 (in una grande produzione diretta da Mario Bonnard), la seconda parte di una retrospettiva dedicata al cinema scandinavo tra grandi maestri (Dryer) e autori meno conosciuti da scoprire (Hedqvist, Carlsten).

Del resto se c’è una cosa che a questo tradizionale appuntamento di inizio autunno non manca, è proprio il gusto per la scoperta, la sorpresa, perfino lo stupore nel trovarsi più spesso di quanto si possa immaginare di fronte a inaspettati indizi di modernità. Chi l’avrebbe immaginato, ad esempio, che della «questione femminile» si accennasse sullo schermo in termini tanto espliciti e attuali già negli anni Venti, magari sulla spinta di quei primi seminali movimenti per l’emancipazione femminile inaugurati dalle sufragette un decennio prima, in ogni caso molto prima del #metoo o della lotta barricadera per la conquista dei diritti civili degli anni Sessanta di cui purtroppo oggi si avverte un’improvvisa nostalgia.

Tra le pieghe del programma della 37.a edizione appena conclusa, qualche considerazione in tal senso affiora. Già alla visione del film di apertura, Captain Salvation, il cui titolo sembrerebbe promettere viaggi avventurosi e che invece abbraccia quasi subito la via di un dolente melodramma dove le virtù eroiche del protagonista non risiedono in banali dimostrazioni di virilità, ma in forme più complesse di coraggio, con un’attenzione esemplare per la definizione dei caratteri femminili, in particolare quello di una prostituta di nome Bess Morgan magnificamente interpretata da Pauline Starke. Una forma di anticonformismo che si traduce in pietas cristiana, nell’umana comprensione per chi è costretto a subire le conseguenze di un destino avverso in un mondo funestato da inguaribili ingiustizie sociali.

«Captain Salvation» di John S. Robertson

La storia è quella del seminarista Anson Campbell (che ha l’aria «nervosa» dello svedese Lars Hanson), di ritorno a casa in una cittadina del New England, dove ad attenderlo c’è la promessa sposa, figlia del pastore locale. Una ragazza pia e devota di nome Mary, con il sogno che un giorno l’amato possa prendere il posto del padre sul pulpito. Ma l’ardore quasi oltraggioso che il giovane sfoggia al suo ingresso in porto a bordo di un veliero, camicia candida senza giacca, capelli lunghi mossi dal vento, prelude fin dai primi fotogrammi a una natura inquieta, al richiamo del mare, a un tormento esistenziale e uno spirito indomito che per forza di cose trascinerà i suoi interessi altrove.

Altrettanto «scandaloso» è considerato il suo slancio, quando – unico tra gli abitanti del posto – non esita a prestare soccorso a una ragazza trovata svenuta sulla spiaggia, sopravvissuta al naufragio di un vascello in mare e segnata dal (pre)giudizio di una comunità bigotta e meschina. La contrapposizione tra due modelli femminili (l’una santa e l’altra puttana, letteralmente) è nettissima. Eppure Robertson, immedesimandosi nello sguardo del suo protagonista, prende istintivamente le parti della più sventurata (e affascinante) delle due donne: Bess. Che in poche didascalie spiega come sia finita a fare la vita per colpa delle attenzioni malsanedel patrigno, il dolore per la perdita di un figlio «indesiderato», ma soprattutto rivendica il diritto a poter decidere del proprio corpo anche nel tragico finale, arrivando a infliggersi la morte come gesto estremo pur di sottrarsi alle grinfie di un viscido capitano e affermare così la sua dignità.

Pure John M. Stahl si schiera dalla parte delle donne. Anzi, tra i contemporanei, fu riconosciuto come regista di «film di donne», melodrammi che ruotano quasi sempre attorno a figure femminili, quanto a Lubitsch, padre della commedia sofisticata dal tocco inconfondibile, la sua sincera ammirazione per il gentil sesso è risaputa. La Zarina (Forbidden Paradise), tornata finalmente alla luce dopo un minuzioso restauro curato dal MoMA di New York insieme alla Film Foundation presieduta da Martin Scorsese mettendo insieme le uniche due danneggiatissime e incomplete copie superstiti per offrire a Pordenone, in anteprima mondiale, la versione più fedele all’originale che si sia vista dagli anni Venti a oggi, è una donna dai costumi sorprendentemente audaci per l’epoca.

E non solo perché, anticipando le bizzarrie a-sincrone della Marie Antoinette immaginata da Sofia Coppola (le All Star, la musica post-punk), Lubitsch si diverte a creare corto-circuiti temporali mediante l’inserimento di dettagli incongrui: automobili che irrompono all’improvviso su sfondi feudali o, per restare in tema, una regina, Caterina, non più imperatrice di tutte le Russie ma sovrana di un piccolo regno d’Europa, che stupisce a corte sfoggiando un taglio «alla maschietta» secondo l’ultima moda parigina. A colpire è soprattutto la sua riconosciuta libertà sessuale.

Mangiatrice di uomini seriale (del resto a interpretarla è Pola Negri, per sua stessa definizione «la prima vamp del cinema e la migliore»), Caterina ha già fatto capitolare al suo irresistibile fascino tutti i più alti ufficiali dell’esercito. E ora che il bel tenente Alexei le si para innanzi, gli affari di stato possono attendere, presa com’è all’idea di sedurre il giovane. Il desiderio della regina è però una forza disgregante e ha un suo contrappasso. Accecato dal moralismo e incapace di accettare la sua breve liason per ciò che è, ossia un flirt passeggero, Alexei sceglie la strada della vendetta e si unisce a un gruppo di rivoluzionari che le si oppongono intonando slogan inequivocabili: «Non vogliamo essere governati da una donna, soprattutto da una donna come questa». Perché, oggi come ieri, tutto si può perdonare, ma non che una donna possa esprimere liberamente la propria sessualità.

Un’altra piccola sezione del festival, ideata l’anno scorso dai partecipanti al Collegium, dove si incontrano giovani studenti provenienti da tutto il mondo, è un vero e proprio invito a riflettere sulla questione di genere ai tempi del muto, palese fin dal titolo: Per lui, per lei. Raccoglie 17 spot pubblicitari da osservare con curiosità non tanto in quanto mezzo di persuasione o di motivazione all’acquisto, aspetto ovvio dal momento dell’affermazione della società consumistica in avanti, quanto per la volontà di rivolgersi a un «pubblico» (di acquirenti) differente a seconda del settore merceologico da promuovere.

Schiuma da barba per lui. Abiti da sogno per lei. Fornendo anche inequivocabili indizi sulla composizione sociale dell’epoca. Prendiamo il sapone, per esempio, un prodotto usato da milioni di persone che interessa ambo i sessi. «Un articolo necessario per i meccanici» che «fa miracoli per la donna di casa». Lo schermo allora si divide in due, in un modernissimo split screen: da un lato gli uomini, che usano il sapone a lavoro, nella fabbrica, in uno spazio sociale e a fronte di una retribuzione; dall’altra le donne, che lavano i piatti in casa, nella sfera domestica e non retribuite.