La luce penetra attraverso il verde fitto della foresta tropicale, quinta scenica della serie New World (2017). Con questo nuovo progetto, presentato in anteprima mondiale, si apre la mostra Lost + Found. David LaChapelle, curata da Reiner Opoku e Denis Curti e organizzata da Fondazione di Venezia e Civita Tre Venezie alla Casa dei Tre Oci (fino al 10 settembre) che segna il ritorno di LaChapelle (Fairfield, Connecticut 1963) alla fotografia analogica.
Nell’isola hawaiana di Maui il fotografo americano risiede sempre più spesso (alternando i soggiorni a Los Angeles dove si trova il suo studio) da quando, nel 2006, ha acquistato la fattoria circondata da svariati ettari di terreno. In questa cornice visionaria i soggetti posano con estrema naturalezza, proiettati in una dimensione cosmico-sintetica che evoca l’esaltazione new age, così come certe letture iconografiche della Genesi o del vibrante olimpo induista.

UNA NUOVA MISSION
Ma non c’è provocazione: da quei corpi tonici e senza veli, femminili e maschili, trapela – piuttosto – una conquistata calma interiore, come suggerisce anche il titolo di una delle fotografie: The End of Battle. Quell’ambita pace interiore a cui, in maniera diversa, aspiravano i corpi inquieti ritratti in una delle prime serie di David LaChapelle, Good News for a Modern Man del 1984 (esposta in occasione di quest’antologia veneziana) ispirata nello stile e nell’approccio simbolico alla pittura dei pittori Preraffaelliti.

The First Supper, 2017©David LaChapelle
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Per questo nuovo viaggio l’autore, che ormai da una decina d’anni ha messo da parte la fotografia commerciale (soprattutto moda e pubblicità), è sempre più convinto della mission di «portare la bellezza, condividerla con il mondo e con le persone», come ha ripetuto anche durante l’affollata inaugurazione, seduto accanto all’amica storica Pamela Anderson con cui scambiava sguardi affettuosamente complici. L’angelo con le grandi ali bianche (Emmanuel as Angel, 1985) è per lui la rappresentazione «dell’idea metafisica della vita» e segna un momento particolarmente significativo. «In quel periodo avevo vent’anni e vivevo nell’East Village, accanto ad amici giovanissimi che morivano di Aids. Ho sempre pensato che il successivo sarei stato io. Così ho cominciato a riflettere sulla vita e sulla morte, sull’anima, sul concetto di immortalità. Cose che vanno prese in considerazione, ma allo stesso tempo bisogna essere capaci di godersi la vita, la musica, una risata, i colori. Proprio quello che cerco di fare con le mie fotografie: regalare sprazzi di energia e colore alle altre persone. Nello stesso tempo queste immagini custodiscono sono molte domande che mi sono posto nel corso del tempo, ossia: c’è un posto migliore dopo la morte? Esiste un paradiso e, se esiste, dov’è?».

FRAGILITÀ UMANE
I lavori di LaChapelle sono costantemente attraversati dal memento mori, non solo quando viene messa in scena un’ossessiva e provocatoria interpretazione dei passi del Nuovo Testamento (Jesus is My Homeboy, 2003-2006), anche quando le citazioni tardo manieriste e barocche della Vanitas s’intrecciano con gli oggetti della nostra contemporaneità (un cellulare, una lattina, un palloncino per le feste), come nella coinvolgente serie di grandi stampe cromogeniche Earth Laughs in Flowers (2008-2011) con fiori nei vasi, fragole nel teschio, l’anguria parzialmente avvolta nella pellicola trasparente, un limone sbucciato, la fetta di torta con le candeline accese e la bandiera americana che prende fuoco accanto a una molletta per stendere i panni… Insomma, il vibrante inno alla fragilità umana e alla caducità della vita, rappresentato ricorrendo al linguaggio iconografico del passato, coniuga paure universali che arrivano direttamente dall’inconscio, ma – procedendo per ossimori – è anche un tripudio di eccessi in cui i sogni (o gli incubi) si trasformano in visioni iperrealiste.

Questo geniale «collezionista di icone», nel proporre la propria visione non dimentica mai, con una certa onestà intellettuale, di citare le fonti che lo hanno ispirato che sia Botticelli, Michelangelo o magari Andy Warhol che fu il suo talent scout. Fu proprio il padre della pop art, a metà degli anni Ottanta, ad offrire al giovane fotografo il suo primo incarico professionale per Interview Magazine, trampolino che lo avrebbe catapultato sulle pagine patinate di Vanity Fair, Vogue e, tra le altre, Rolling Stone.

I MITI DEL PROGRESSO
Altre citazioni contemporanee sono certamente Jeff Koons e Damien Hirst in Seismic Shift (2012), mentre in Gas (2012) sembra presente anche la reminiscenza delle atmosfere urbane di Edward Hopper attraverso la mediazione carica di suspense di Gregory Crewdson. In queste immagini le stazioni di servizio, benché illuminate, appaiono come cristallizzate.
Sono modellini-monumenti che raccontano di un progresso fasullo, ricreati con materiali di riciclo ma fotografati all’interno di scenari naturalistici reali: la rigogliosa foresta pluviale di Maui così come il deserto californiano. Una natura apparentemente benevola che, ancora una volta, porta conforto e bellezza.