Ogni epoca culturale ha i suoi obiettivi, deliberati o meno. Tra quelli della postmodernità, santificata dopo la caduta del Muro, c’era naturalmente lo svuotamento di ogni istanza politica, meglio se radicale, da qualsiasi discorso sul presente e sul futuro. E tra le cosiddette icone del postmoderno c’è senz’altro Paul David Hewson, in arte Bono Vox, frontman degli U2, ancora la più grande (quantitativamente) band del mondo, il cui prossimo album, prodotto da Danger Mouse, tiene milioni di fan in sospeso. Autentico mattatore sul palco e fuori, Bono è il papa laico del rock. Ma anche uno che il rock ha finito di salassarlo, cavandogli – anemico com’era – le ultime stille di eterodossia nel nome della carità.

Questo salasso è brillantemente descritto da The Frontman. Bono (In the name of power) di Harry Browne, sorta di biografia politica dell’apoliticità di una stella multimilionaria e pluridecorata – perfino la Legion d’Onore – che ha fatto della beneficienza mediatica un feticcio.La nostra sarà ricordata anche come l’epoca di Bono. Che è sempre stato una figura polarizzante. Musicalmente (quello che per molti è possente espressione di emotività, per altri è megalomane rock parrocchiale); eticamente (il suo prodigarsi per l’Africa cozza sonoramente con la sua dichiarazione dei redditi); forse un po’ meno esteticamente: l’ormai logoro vezzo degli occhiali, i pantaloni di pelle, gli stivalacci da bucaniere e, soprattutto, l’indelebile ricordo della capigliatura degli esordi generano ancora una certa ilarità.Ma lo diventerà forse ancor di più ora che è uscito questo libro, difficilmente digeribile dai fan del cantante degli U2 perché in felice – e tardiva – controtendenza in mezzo a una foresta di agiografie. Browne, lecturer presso l’Institute of Technology di Dublino, ha scritto un’analisi molto documentata della fenomenologia benefica di Bono, anzi della Bonoficenza. Serrata e talvolta impietosa. Lasciando la musica da parte.

Il frontman è il leader, quello che sul palco sta davanti al gruppo. Ma è anche chi ci mette la faccia, che prende gli applausi o, si fa per dire, le bottigliate. Bono lo è per gli U2 naturalmente ma, secondo Browne, anche per i potenti della terra con cui si è scambiato pacche sulle spalle per almeno due decenni. Gente che va dal sovrintendente della finanziarizzazione selvaggia Clinton agli invasori dell’Iraq Bush e Blair; dall’architetto della shock economy che ha contribuito a fare della Russia lo stato paramafioso che è oggi Jeffrey Sachs al criminale di guerra Paul Wolfowitz, fino al senatore americano omofobo e razzista Jesse Helms.

[do action=”citazione”]Tutto per l’Africa, certo. Ma Bono il cristiano è stato infaticabile demiurgo di una pia crociata nella quale gli africani sono sempre stati ridotti a un ruolo di mera iconografia della fame e del dolore, passivi destinatari dell’interessato aiuto occidentale. Come disse Damon Albarn in occasione del Live 8 del 2005 criticando la quasi mancanza di artisti neri sui palchi di Londra, Edinburgo, Philadelphia, Parigi e Roma: «È come fare una festa per qualcuno e non farlo entrare». Un gigantesco lavacro della coscienza dell’occidente.[/do]

Bono ama definirsi «un venditore». Improbabile che Dylan o Lennon avrebbero fatto ricorso a una simile enunciazione anche se, com’è ovvio, alle strette tutti siamo venditori del nostro lavoro. Ma alla fine di The Frontman appare in un’altra veste, leggermente diversa: quella del broker. È infatti come broker, nell’accezione di uno che fornisce a due contraenti i termini di una transazione commerciale che si riveli vantaggiosa per entrambi, che Bono ha svolto la maggior parte del suo lavoro. Bussando alle porte del potere, non solo senza minimamente metterne in discussione i metodi, ma distribuendo i dividendi in maniera a dir poco diseguale.
Molto di quanto fatto per l’Africa si è rivelato poco rispetto alle attese. Mentre gli uomini politici sui quali ha steso la sua ala redentrice, Bush e Blair in particolare, hanno capitalizzato enormemente in immagine. Un broker, insomma che favorisce una parte sola, dando l’impressione di fare il contrario. Si era perfino, e realisticamente, parlato di lui come presidente della World Bank. Se gli ultimi trent’anni, l’epoca in cui si è mobilitato, è stata contraddistinta da un’enorme ingordigia, Bono l’insider le ha fornito un insperato escamotage morale. Dal Live Aid (1985) voluto dal connazionale Geldof – a sua volta poi impelagato in opache manovre fiscali e divenuto lobbysta d’investimenti nella stessa Africa che pretendeva di nutrire in Do they know it’s Christmas? – al G8 di Gleneagles nel 2005, culmine dell’allora onnipresente e querula campagna Make Poverty History, Bono ha zigzagato da Downing Street alla Casa Bianca, da consigli di amministrazione a hedge funds, facendo l’immancabile segno della pace, che non a caso significa anche vittoria.

Ma la vittoria, di certo quella morale, è quanto mai discutibile. Non solo tanto sollecitare non ha consegnato la povertà alla storia: avveniva in piena invasione dell’Iraq e prossimo all’acquisto del pacchetto azionario di Forbes, che con la famigerata fuga fiscale ad Amsterdam della band avrebbe causato un prevedibile disastro di PR nella natia Irlanda, Paese la cui bolla economica era appena scoppiata. Più di ogni altra rock star, Bono ha riempito quel sottile iato che ancora divideva la politica e l’economia dallo spettacolo. Ma si è lasciato superare dal sistema di cui è stato avanguardia. Il suo recente declino d’immagine non è solo dovuto al fatto che in tempi di crisi l’occidente liberal veda di malavoglia le ripetute prediche di carità, soprattutto se provenienti da un arcicapitalista che non paga le tasse nel suo Paese. Quanto al fatto che l’inquilino attuale della Casa Bianca sia una rock star lui stesso.