Rohingya. Alla fine la parola proibita Bergoglio non la pronuncia. O perlomeno non la pronuncia in pubblico.

Nella sua seconda giornata birmana papa Francesco, che ha incontrato il giorno prima per soli 15 minuti il generale più anziano e più alto in grado del Paese, viene ricevuto dalla Nobel Aung San Suu Kyi per ben 45 minuti. Colloquio privato e, con ogni probabilità, non troppo cerimoniale in cui il pontefice deve aver fatto riferimento al dramma della comunità rohingya per cui ha speso in passato parole forti, affacciato alla finestra del suo studio che dà su piazza San Pietro.

L’UOMO CHE HA CHIAMATO i rohingya «fratelli e sorelle» e che, dicevano allora fonti confidenziali, aveva già affrontato la vicenda con la Nobel in occasione della sua visita a Roma l’estate scorsa (quando Vaticano e Myanmar hanno riallacciato le relazioni diplomatiche), nel suo discorso pubblico ha sottolineato alcuni punti importanti, ribaditi anche nell’incontro con i responsabili religiosi. Il papa ha auspicato la costruzione di un «ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo» e ha ricordato (sono ormai in pochi a farlo) l’importanza del ruolo dell’Onu.

Ma soprattutto ha detto che: «Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune». Il discorso è chiaro e lo è, soprattutto, quell’inciso (nessuno escluso) che equivale, seppur in linguaggio diplomatico, a pronunciare la parola «rohingya».

«LE DIFFERENZE RELIGIOSE – aggiunge il pontefice – non devono essere fonte di divisione e di diffidenza ma piuttosto una forza per l’unità, per il perdono, per la tolleranza». È un concetto che papa Francesco riprende anche con gli esponenti delle varie comunità religiose cui parla di un «coro delle differenze» dove la diversità diventa una ricchezza. Nel gruppo ci sono anche tre leader musulmani.

Nel suo discorso pubblico Aung San Suu Kyi resta invece sui toni formali e ringrazia il santo padre per la sua visita e per l’invito ad andare avanti con la costruzione di una nuova società. Nessun accenno al dramma dei rohingya, solo una breve digressione in cui si affaccia il termine Rakhine (lo stato da cui i rohingya sono stati cacciati). Nulla più.

RESTA UN PICCOLO MISTERO intanto il cambio di programma che prevedeva inizialmente per il 30 di novembre l’incontro con il potente generale Min Aung Hlaing, l’uomo forte dell’esercito. Forse Francesco ha preferito evitare la pompa magna di un incontro troppo ufficiale e ha preferito un brevissimo colloquio privato magari per evitare di dar troppo peso al generale. Un’attenzione invece riservata, con tutte le forme del cerimoniale, sia al presidente Htin Kyaw sia alla sua premier de facto, Aung Sann Suu Kyi. Il generale inoltre non ha beneficiato di nessun discorso pubblico ma solo di una sorta di tappa obbligata dall’etichetta. Il pontefice non gli ha concesso nulla più che l’obbligo di rispettarla.

IL VIAGGIO IN MYANMAR volge al termine e, prima della sua prosecuzione in Bangladesh, prevede un incontro con i responsabili del Sangha, il «Vaticano» dei monaci birmani, e col comitato di monaci che interagiscono col governo e regolano i rapporti tra laici e clero. È facile immaginare che, anche con loro, ripeterà il suo messaggio di unità al di là del credo religioso. Un modo per ricordare i rohingya ma anche la piccola comunità cattolica di sole 700mila anime.

POI SARÀ LA VOLTA DEL VIAGGIO in Bangladesh dove, è ormai praticamente certo, Francesco incontrerà un gruppo di rohingya. Escluso che il pontefice vada a Cox’s Bazar, dove una massa di oltre 600mila profughi vive in condizioni bestiali. La delegazione di rohingya lo raggiungerà molto probabilmente a Dacca in una data che potrebbe essere quella del 1 dicembre. Mancheranno 24 giorni a Natale, il giorno più importante per un cattolico e anche il periodo in cui in Bangladesh si va in vacanza proprio a Cox’s Bazar, nota per avere la spiaggia più lunga del mondo. E ora per essere un inferno.