Nella prima giornata del suo viaggio apostolico in Turchia, avamposto della Nato nel conflitto contro l’Is, papa Francesco ribadisce la condanna della «soluzione militare» nei confronti del califfato.

La situazione è grave, ha detto ieri Bergoglio incontrando il presidente Erdogan – con cui ha avuto anche un colloquio privato – e le altre autorità turche. «In Siria e in Iraq la violenza terroristica non accenna a placarsi», vengono violate le «più elementari leggi umanitarie nei confronti di prigionieri e di interi gruppi etnici» («specialmente, ma non solo, i cristiani e gli yazidi»), «centinaia di migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case e la loro patria per poter salvare la propria vita e rimanere fedeli al proprio credo». Pertanto «è lecito fermare l’aggressore ingiusto», ma «sempre nel rispetto del diritto internazionale». «Non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare», ha puntualizzato il papa, le risorse non vanno destinate agli «armamenti» – bocciata quindi la fornitura di armi che anche l’Italia sta mettendo in atto – ma «alle vere lotte degne dell’uomo», ovvero «contro la fame e le malattie», «per lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia del creato».

Insomma la soluzione non sono le bombe, anche se “umanitarie”. La risposta alla guerra non è la guerra. La strada è invece quella di «utilizzare con lealtà, pazienza e determinazione tutti i mezzi della trattativa».

Quello cominciato ieri è un viaggio delicato per Francesco, denso di significati geopolitici e religiosi. La Turchia infatti è contemporaneamente la cerniera fra Europa e Medio Oriente e il crocevia fra mondo musulmano, cristiano ortodosso e cristiano cattolico. E se ieri il tema è stato soprattutto la politica – compreso un richiamo ad Erdogan sulla libertà religiosa («è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani, tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri» –, la giornate di oggi e domani saranno dedicate alle relazioni interreligiose ed ecumeniche.

Stamattina Francesco sarà in visita a Santa Sofia – basilica bizantina, poi moschea dopo la presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani nel 1453, infine museo con la Turchia laica di Ataturk –, quindi entrerà nella moschea del sultano Ahmet, la «moschea blu». Un itinerario analogo a quello di papa Ratzinger, nel 2006, che nella moschea blu si soffermò in preghiera dinanzi al Mihrab, l’edicola che indica la direzione della Mecca, «come un musulmano», titolò un quotidiano di Istanbul. Ma allora c’erano da ricucire lo strappo con il mondo islamico dopo l’ambiguo discorso di Ratisbona (dove il papa citò delle frasi contro Maometto dell’imperatore Manuele II Paleologo) e allentare le tensioni dopo le parole Benedetto XVI di netta chiusura all’ingresso della Turchia nell’Ue.

Nel pomeriggio poi – dopo la celebrazione di una messa nella cattedrale cattolica dello Spirito Santo e una preghiera ecumenica nella chiesa patriarcale di San Giorgio – comincerà quello che dovrebbe essere il momento centrale del viaggio in Turchia, l’incontro con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, 960 anni dopo lo scisma di Oriente del 1054 fra cattolici e ortodossi.

Domani ci sarà la firma di una dichiarazione congiunta di Francesco e Bartolomeo, in grande sintonia dall’inizio del pontificato di Bergoglio. «L’intenzione è rafforzare i legami di amicizia, collaborazione e dialogo fra le due Chiese», ha spiegato alla Radio Vaticana il segretario di Stato vaticano, card. Parolin. E ha confermato Bartolomeo, in un’intervista pubblicata ieri su Avvenire: «La nuova prospettiva che papa Francesco sta dando al ruolo di vescovo di Roma, alla sinodalità nel governo della Chiesa, sono temi cari all’Oriente, che guarda con particolare attenzione a questi risvolti».

Insomma, lascia intendere Bartolomeo, come mille anni fa, il nodo principale ancora da sciogliere resta il papato.