È cominciato ieri il ventunesimo viaggio apostolico all’estero di papa Francesco che fino al 30 novembre sarà in Myanmar – primo pontefice della storia a recarsi nell’ex Birmania – e poi, dal 30 novembre al 2 dicembre, in Bangladesh.

Un viaggio delicato («Più che un viaggio sarà un’avventura», ha detto ironicamente il direttore della Sala stampa della Santa sede, Greg Burke, presentando in Vaticano la trasferta del pontefice, anche a causa di problemi logistici che si preannunciano più complicati del solito), in due Stati a stragrande maggioranza buddista (Myanmar) e musulmana (Bangladesh), dove i cattolici sono una piccola minoranza.

Un viaggio dal forte significato interreligioso e con al centro un nodo spinosissimo, che ha fatto salire la temperatura diplomatica e che sta monopolizzando l’attenzione: la questione rohingya, la minoranza musulmana perseguitata da decenni dai birmani (ma anche da altri Stati dell’area: Indonesia, Malesia e Thailandia) e fuggita in massa dallo Stato del Rakhine.

Il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, e i vertici della Chiesa cattolica birmana hanno chiesto pubblicamente al papa di non nominare direttamente la minoranza rohingya – come invece aveva fatto durante un Angelus romano ad agosto – fin tanto che si troverà in Myanmar, per non provocare un ulteriore aumento della tensione.

«Il santo padre prende molto sul serio i consigli, ma vedremo cosa deciderà di fare», ha aggiunto Burke. Salvo sorprese, improbabili ma sempre possibili, quindi Francesco parlerà delle minoranze etnico-religiose presenti nel paese, senza però chiamarle per nome, e farà un appello di carattere generale per la pace, il dialogo e i diritti umani.

Ma il giorno dopo, varcati i confini di Myanmar, Francesco incontrerà un gruppo di rohingya, durante l’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace in programma l’1 dicembre nei giardini dell’Arcivescovado di Dhaka, in Bangladesh, dove sono rifugiati oltre 600mila profughi rohingya in fuga dall’ex Birmania.

A supporto che la «strategia» della Santa sede pare proprio questa – porre all’attenzione la questione dei rohingya ma non in Myanmar bensì in Bangladesh – c’è l’incontro che ieri, anticipando i tempi previsti dal programma ufficiale, papa Francesco ha avuto nel palazzo dell’arcivescovado di Yangon con il generale Min Aung Hlaing, comandante in capo della Difesa, e con altri vertici militari birmani, principali responsabili della persecuzione dei rohingya.

Quindici minuti di colloquio in cui, riferisce Burke, «si è parlato della grande responsabilità delle autorità del paese in questo momento di transizione». Oggi la giornata clou del viaggio in Myanmar: l’incontro la consigliera di Stato e ministro degli Affari Esteri Aung San Suu Kyi.