La condanna della guerra e della violenza. L’appello alla costruzione della pace attraverso la realizzazione della giustizia e il dialogo interetnico e interreligioso. Sono stati questi i temi portanti del viaggio, ieri, di papa Francesco a Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina. Parole già sentite ma che, pronunciate in una città dilaniata da guerre e conflitti, assumono un valore rilevante. Anche perché nessuno dei gruppi etnici-religiosi in cui è diviso il Paese (bosniaci musulmani, serbi ortodossi e croati cattolici) potrà appropriarsene.

«Sarajevo è chiamata la Gerusalemme dell’Occidente, è una città di culture religiose ed etniche tanto diverse; è anche una città che ha sofferto tanto nella storia e adesso è in un bel cammino di pace», ha detto il papa ai 65 giornalisti di varie testate internazionali presenti con lui sull’aereo che alle 9 è atterrato a Sarajevo, accolto fra gli altri dal membro croato della presidenza tripartita di Bosnia Erzegovina, Dragan Covic. Un nutrito gruppo di intellettuali bosniaci, in una lettera consegnata a Francesco pochi giorni prima della sua partenza, aveva espresso disappunto perché ad incontrare il papa ci sarebbe stato anche Covic, che in precedenza aveva accolto pubblicamente Dario Kordic, «criminale di guerra» di ritorno in Bosnia dopo aver scontato due terzi della sua condanna internazionale a 25 anni di carcere. «Ci dispiace che le stesse persone che con gioia accolgono i criminali di guerra vi daranno il benvenuto». Avrebbero preferito che Bergoglio lo evitasse, ma il protocollo non è stato modificato.

Nel palazzo presidenziale, Francesco ha incontrato le autorità civili di Bosnia Erzegovina. Si è rallegrato dei «progressi compiuti» dal 1995 – quando fu firmata la “pace di carta” di Dayton – e li ha esortati a «non accontentarsi di quanto finora realizzato». I politici, ha aggiunto devono «salvaguardare i diritti fondamentali della persona umana», e «perché ciò avvenga è indispensabile l’effettiva uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e nella sua attuazione, qualunque sia la loro appartenenza etnica, religiosa e geografica». E poi: «Abbiamo bisogno, per opporci con successo alla barbarie di chi vorrebbe fare di ogni differenza l’occasione e il pretesto di violenze sempre più efferate, di riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, in nome dei quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio». Un monito ai nazionalismi di ogni colore – ma anche alle fedi di ogni religione – e un invito ad un «percorso che purifichi la memoria e dia speranza per l’avvenire».

L’intervento più forte Bergoglio lo ha pronunciato durante la messa allo stadio Koševo, davanti a 65mila fedeli: «L’aspirazione alla pace e l’impegno per costruirla si scontrano col fatto che nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati. Una sorta di terza guerra mondiale combattuta “a pezzi” e, nel contesto della comunicazione globale, si percepisce un clima di guerra». Fra i primi responsabili – come più volte affermato da Francesco – «coloro che speculano sulle guerre per vendere armi». «Mai più la guerra», ha ribadito il papa, precisando che il Vangelo non dice «beati i predicatori di pace» («tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita»)», ma «beati gli operatori di pace». E la pace «è opera della giustizia», «non una giustizia declamata, teorizzata, pianificata, ma la giustizia praticata». Un discorso ripreso nel pomeriggio, durante l’incontro interreligioso con 300 rappresentanti delle comunità musulmana, ortodossa, cattolica ed ebraica. Il dialogo, ha detto Bergoglio, non è tanto «discussione sui grandi temi della fede» ma «conversazione sulla vita umana» in cui «si assumono responsabilità comuni e si progetta un futuro migliore per tutti».

Una parziale riposta alla lettera degli intellettuali bosniaci – sebbene non ci sia stato nessun mea culpa per le responsabilità della Chiesa cattolica e del Vaticano di Wojtyla, fra i primi a riconoscere l’indipendenza di Slovenia e Croazia – che rivendicano con «orgoglio» la «diversità etnica e religiosa» del loro Paese, lamentando il processo che si è innescato «nel periodo post-socialista»: una «nazionalizzazione del sacro» e una «sacralizzazione del nazionalismo». Che ancora continua, denunciano, con la «glorificazione di criminali di guerra esaltati come eroi nazionali e martiri». Anche da parte della Chiesa cattolica.