Ancora una volta, la piazza del Congresso si è tinta di verde, verde come il foulard diventato simbolo della lotta per un aborto legale, sicuro e gratuito, verde come la speranza di renderlo al più presto possibile.

È ricominciato così, il 19 febbraio – secondo anniversario dallo storico pañuelazo realizzato nel 2018 di fronte al Parlamento da un’incontenibile marea di donne di tutte le età – il pressing sui parlamentari argentini, nello stesso clima di festa di allora, ma con prospettive decisamente migliori.

DUE ANNI FA, quell’onda verde si era infranta contro il voto dei senatori, i quali avevano respinto la legge per la legalizzazione dell’aborto entro la quattordicesima settimana (e anche oltre in caso di stupro, di pericolo per la vita della donna e di gravi malformazioni fetali), lasciando inalterato l’ordinamento l’attuale. Quello cioè, risalente addirittura al 1921, che punisce l’aborto con una pena fino a quattro anni di carcere, ammettendolo solo in caso di stupro o di minaccia alla salute della madre. Ma neanche quella sconfitta aveva potuto intaccare la certezza che la festa fosse solo rimandata: di fronte all’ormai irreversibile cambiamento registrato nella società, era impensabile che il tema potesse uscire dall’agenda politica del paese.

Soprattutto a fronte di stime ufficiali che parlano di 500mila aborti ogni anno, 1.369 al giorno, 57 all’ora. E di 298 adolescenti tra i 15 e i 18 anni che ogni giorno diventano madri. Così, a pochi giorni dall’inizio della legislatura (il primo marzo), la Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito ha convocato un nuovo pañuelazo verde, con lo slogan «L’aborto sarà legge nel 2020».

E CON OSPITI SPECIALI: le donne del collettivo cileno Las Tesis, che hanno riprodotto il loro celebre flash-mob «Un violador en tu camino» adattandolo all’occasione: «Il patriarcato è un giudice che ci obbliga a partorire e il nostro castigo è la violenza che hai di fronte. È femminicidio. Maternità come destino. È stupro. È aborto clandestino». Le condizioni per l’approvazione della legge stavolta, in effetti, sembrano esserci tutte. Non a caso, il presidente Alberto Fernández ha già annunciato l’invio di un progetto di legge per la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza. Ed è sembrato di buon auspicio anche l’omaggio al pañuelazo da parte del ministro dell’Educazione Nicolás Trotta, il quale, su Instagram, ha postato la foto di una mano di donna con il fazzoletto verde e lo slogan del movimento Ni una menos «Educazione sessuale per poter decidere. Anticoncezionali per non abortire. Aborto legale per non morire». Ma non è solo in Argentina che le donne sono scese in piazza il 19 febbraio, proclamato Giornata di azione per l’aborto sicuro in tutta l’America latina.

A MOBILITARSI sono state anche le femministe messicane di Marea verde (un coordinamento che riunisce più di 700 organizzazioni) per chiedere la legalizzazione dell’aborto – oggi ammesso solo nel Distretto Federale e a Oaxaca – in tutto il paese.

In Messico, tuttavia, sono ancora le polemiche seguite ai femminicidi di Ingrid Escamilla e della piccola Fátima a tenere banco. In un nuova protesta di fronte al Palazzo nazionale, le femministe sono tornate a contestare martedì l’inerzia del governo dinanzi all’ondata di femminicidi, denunciando, con lo slogan «Moralizzare non è la soluzione», la cosiddetta Cartilla moral adottata dal presidente Andrés Manuel López Obrador: una raccolta di valori universali – distribuita in particolare da organizzazioni evangeliche – mirata a combattere i mali del paese «moralizzando la vita pubblica». In tutto il continente e per tutte le donne il prossimo decisivo appuntamento è ora l’8 marzo, attesissimo soprattutto in Cile, dove la Coordinadora 8M ha già presentato un fitto calendario di mobilitazioni che, nel quadro della rivolta anti-governativa in corso nel paese, culminerà, l’8 e il 9 marzo, con lo sciopero generale femminista, contro la violazione dei diritti umani e per un’Assemblea costituente realmente libera e sovrana.

Ma anche in Brasile l’evento assumerà una particolare valenza, a fronte dei ripetuti attacchi misogini da parte di Bolsonaro, l’ultimo e più vergognoso dei quali è stato sferrato contro la giornalista della Folha de S.Paulo Patricia Campos Mello, l’autrice dell’inchiesta sulle fake news durante l’ultima campagna elettorale, accusata di cercare informazioni in cambio di sesso. «Voleva uno scoop, voleva uno scoop, a qualsiasi prezzo, contro di me», ha insinuato Bolsonaro, giocando sul doppio senso della parola brasiliana «furo», che significa scoop, ma anche «buco», tra le risatine degli interlocutori. Un attacco che ha scatenato furiose proteste in tutto il paese, suscitando da più parti, contro il presidente, persino richieste di impeachment.