Cultura

Il panopticon della povertà

Il panopticon della povertà"Cage à deux" di Mona Hatoum, 2002

La pena infinita Dopo gli Stati Uniti, la svolta neoliberista del sistema detentivo sbarca in Italia. Crescono i detenuti, il superaffollamento delle celle, ma non decolla la privatizzazione della gestione delle prigioni. Un percorso di lettura sul carcere come una istituzione finalizzata al controllo sociale di una popolazione sempre più impoverita

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 3 ottobre 2013

Per fare alcune considerazioni sul rapporto stretto che lega neoliberismo e carcere, è opportuno partire dal volume di Loïc Wacquant Iperincarcerazione. Neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti (Ombre corte. Ne ha già scritto su questo giornale Vincenzo Vita il 7 giugno). È, quello dello studioso francese, un «diario della crisi» dell’Impero visto da uno dei suoi lati più oscuri: il disastro sociale, eppur funzionale e messo a valore, che l’ideologia neoliberista ha provocato negli States. Lo stesso autore con Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale (DeriveApprodi) e Simbiosi mortale. Neoliberismo e politica penale (Ombre corte), ancora prima che esplodesse la bolla finanziaria del 2008 aveva anticipato come il controllo e la gestione della marginalità, tramite l’ipertrofia penale e carceraria, avrebbero portato gli Usa a essere elencati tra i paesi con il più alto tasso di carcerizzazione del mondo esibendo senza alcuna vergogna settecentosedici prigionieri su centomila abitanti al 2012 (i dati sono ricavati dagli studi dell’International Centre for Prison Studies).

Il neoliberismo, tuttavia, non ha bisogno di modificare così in profondità la struttura dello Stato. Gli basta una ridislocazione di alcuni meccanismi sociali: dalla distruzione del welfare, passando per il workfare, si arriva al prisonfare. Questo passaggio, sostiene Wacquant, non riguarda tutti gli americani ma una maggioranza percepita come classe pericolosa, una galassia caleidoscopica costituita da un’infinità di soggetti e gruppi sociali caratterizzati da una loro specificità: l’irriducibilità a un mercato del lavoro sempre più desocializzato, strutturalmente precario e schiavistico, che li induce a rivolgersi all’economia informale di strada. In altre parole, come documenta Alessandro Dal Lago nel saggio La produzione della devianza (ombre corte), sono i poveri, i reietti, i disoccupati, le etnie ispaniche e nere, il sottoproletariato delle grandi periferie metropolitane, i sofferenti psichiatrici, le prostitute e i tossicodipendenti ad essere stritolati nelle tecnologie del controllo messe in campo dagli stati nazionali.

Il business penitenziario

Da qui la soluzione neoliberista, che vede un’espansione ormai illimitata dello stato penale su quello sociale, l’ipertrofia degli apparati del controllo disciplinare a scapito di chi ha accettato le condizioni spaventose del lavoro postindustriale e di chi da questo ne è stato escluso. Di conseguenza, naturalmente, si è avuto a seguire un businnes penitenziario (Nils Christie, Il business penitenziario, Elèuthera) in continua evoluzione. Prende così forma un processo di privatizzazione della pena e della sua gestione con l’ingresso, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, delle società imprenditoriali del settore (oggi in riduzione), un’enorme produzione di servizi forniti dai soliti privati in appalto (sanità, educazione, assistenza, logistica, ecc.), il sovradimensionamento di tutto l’apparato punitivo (polizia, agenti penitenziari, Corti penali) e della professione forense.

Un affare che complessivamente macina profitti per miliardi di dollari l’anno. Un analogo e lucroso businnes lo hanno avuto le industrie che, portando la produzione all’interno degli stabilimenti penitenziar,i hanno trovato lavoro vivo a sfruttamento totale sotto ricatto e a prezzi imbattibili se paragonati a quelli di fuori. Per quanto riguarda l’Europa, l’importazione del modello penale statunitense ha avuto come conseguenza il raddoppio, negli ultimi venticinque anni, dei i tassi di carcerizzazione, che si sono assestati a una media di 100 prigionieri ogni 100.000 abitanti con un trend dell’ipertrofia dello Stato penale e del suo indotto produttivo in continuo aumento.

Nondimeno l’Italia, da brava prima della classe, che dal 1966 al 1992 aveva un tasso di carcerizzazione tra 50 e 60 prigionieri per 100.000 abitanti, dal 1992 in soli 8 anni è passata a 100 su 100.000. Al 2012 il nostro Paese vanta una percentuale temporaneamente in assestamento di 109 su centomila (International Centre for Prison Studies). Gli altri dati più noti al pubblico sensibile e facilmente riscontrabili sul web sono: dopo aver toccato una punta di settantamila negli anni precedenti, la popolazione carceraria italiana è provvisoriamente assestata su sessantaseimila prigionieri nei 206 istituti penali esistenti. Il tasso di sovraffollamento è 140, ossia 140 prigionieri per 100 posti letto effettivamente disponibili. La composizione carceraria mostra un 37% d’imprigionati per aver violato le leggi sulle sostanze stupefacenti, con un drastico aumento riscontrato dopo l’entrata in vigore della «Fini-Giovanardi» (Legge 309 del 28/02/2006), e un 35% di stranieri come «ottimo» risultato della «Bossi-Fini» (Legge 189 del 30/07/2002). Il rimanente è costituito da uomini e donne incarcerati per reati «predatori di strada» (nomadi, prostitute, psichiatrizzati e marginalizzati in seguito all’espulsione dal mercato del lavoro). Poco meno di 700 i murati vivi dell’incostituzionale 41 bis, tra i quali si riscontra il 4% di suicidi sul totale.

Le censure europee

L’ergastolo, messo all’indice nel 2013 da una sentenza della Corte europea dei diritti umani per palese violazione di tali diritti e incostituzionale secondo l’articolo 27, 3° comma, della Costituzione italiana, colpisce circa millequattrocento detenuti. Si aggira intorno al quaranta per cento sul totale il numero degli imprigionati in custodia cautelare o con sentenze non definitive, dei quali circa la metà saranno scarcerati in seguito all’accertamento della loro innocenza dopo mesi o anni di galera a titolo gratuito. Infine, la tortura. Secondo il Michael Foucault di Sorvegliare e punire e siste da sempre. Oggi sopravvive non solo per la disumana condizione cui il sovraffollamento endemico e strutturale sottopone i prigionieri, ma anche – come documentato da decine di interpellaze parlamentari e da decine di denunce di associazione dei diritti civili – a causa di «squadrette» fuori controllo di agenti violenti che si aggirano indisturbate nelle galere nostrane. In questo caso, non si tratta di estorcere confessioni, ma di stabilire un rigido controllo disciplinare all’interno degli istituti penali e giudiziari (S. Verde, Massima sicurezza, Odradek). Di norma i pestaggi colpiscono i prigionieri riottosi o coloro che hanno reclamato i propri diritti con una certa insistenza. Queste violenze in genere avvengono nelle celle d’isolamento, lontano da eventuali testimoni, nelle quali i malcapitati sono trasferiti per subire il «trattamento». Una realtà, questa, più volte condannata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. L’Italia, è noto, non ha una legge sulla tortura, come più volte sottolineato dagli organismi comunitari, da una campagna da parte di pochi deputati e associazioni della società civile. L’indifferenza da parte dei governi che si sono succeduti nel nostro paese è testimoniata dal fatto che in Parlamento giacciono dimenticati nei cassetti numerosi disegni depositati da rari parlamentari sensibili.

L’Italia ha provato inoltre a importare uno dei tratti più distintivi dell’iperincarcerazione neoliberista americana (e inglese), che consiste nella privatizzazione della gestione dell’applicazione penale in carcere. Ma l’idea di aderire alla proposta governativa contenuta nel Decreto Legge 24 gennaio 2012 non ha però entusiasmato gli imprenditori del cemento e della sofferenza; infatti per ora nessuno si è presentato, forse a causa dall’assenza di certezza di un durevole profitto dovuta a decrete attuativi assemti e una burocrazia che, in ambito carceraio, rendono la vita impossibile anche al più paziente degli uomini e delle donne. Infine, dal 2000 al 10 settembre 2013 nel nostro circuito penitenziario si sono avuti duemiladuecento morti di cui settecentonovanta suicidi. Morti per violazione statale del diritto di accesso alla sanità e alla cura. Le patologie più ricorrenti sono Aids, tumori, epatiti, cardiopatie gravi, psicopatologie: patologie quasi tutte acquisite in carcere a causa della promiscuità, di ambienti malsani, malnutrizione e stress psicofisico da detenzione. Ci sono anche i morti che la sinistra burocrazia carceraria classifica come «da accertare», ovvero quelli «caduti dalle scale».

Negli ultimi 25 anni tutti i governi di ogni colore che si sono succeduti – con una spiccata propensione ecuritaria del centrosinistra (la «riforma» Fassino del 2001, quella di Diliberto nel 1999 e la Turco-Napolitano che ha istituzionalizzato i «lager» per migranti 1998) hanno usato il Parlamento come una clava sulle «classi pericolose». Non serve certo un un esperto per osservare che vi è stata, e vi è tuttora, una produzione spropositata di leggi e decreti che hanno provocato un allargamento dello Stato penale impensabile fino agli anni Novanta. L’evidenza sta nella continua invenzione di nuove fattispecie di reato, nell’innalzamento delle pene edittali, nella concessione alla magistratura dell’uso spropositato della custodia cautelare in carcere come anticipo della pena, dell’uso discrezionale dell’art.41 bis su esplicita richiesta dei Ministeri di giustizia e dell’interno, nell’uso razzista e xenofobo dei Cie.

I professionisti della paura

In questo lungo elenco, non possono essere omesse le campagne securitari e ampiamente amplificate dai media di regime per spaventare la popolazione durante le campagne elettorali di questo o quel partito per raccogliere consensi dovuti dalla paura. Del resto, come osserva Patrizio Gonnella nella prefazione a Iperincarcerazione, una volta ceduta la sovranità a organi sovranazionali come Fmi, Bce, Banca mondiale, agli stati nazionali non rimane che il potere punitivo, al quale tengono enormemente e ritengono inaccettabile ogni intromissione sul «corretto» uso della forza cieca.

Naturalmente non tutto prosegue così linearmente. C’è infatti da registrare che i detenuti reclamano da anni provvedimenti di amnistia e di indulto, come documenta Vincenzo Scalia nel libro Migranti, devianti e cittadini (Franco Angeli). Sono state mobilitazioni avvenute dentro e fuori le mura del carcere e costituiscono un patrimonio di lotte considerevole numericamente e importantissimo che procura non pochi grattacapi ai professionisti della paura, della sofferenza e della punizione. I quali reagiscono nel solo modo in cui sono capaci: arrestare più soggetti possibile per inserirli in un circuito penale ipertrofico dove si compirà il rito sacro della vendetta sociale, della rappresaglia e della violenza punitiva.
La posta in gioco è trovare il giusto modo per inceppare la macchina infernale e disumana del governo neoliberista della carcerazione. Con una raccomandazione: mantenere la memoria storica di classe, fattore essenziale per determinare la direzione giusta da prendere. E soprattutto con chi.

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