È sempre più profonda la crisi in Libano. Nel fine settimana è stato oggetto di tensione sociale un bene dal valore oltre che materiale, altamente simbolico: il pane. Sabato e domenica si sono registrate file davanti ai forni di tutto il Paese alla notizia che il pane non sarebbe stato distribuito ad alimentari e supermercati.

Ali Ibrahim, capo del sindacato dei panificatori, spiega che alle attuali condizioni è impossibile per i forni mantenere invariati i prezzi. La farina viene comprata in dollari all’estero e il pane venduto in Libano in lire. «Fino a quando non ci sarà una soluzione per le nostre perdite, smetteremo di distribuire il pane ai supermercati», ha dichiarato ai media locali.

Il ministro dell’economia Nehme ha invitato sabato la popolazione a non accalcarsi fuori dai panifici e in un tweet ha dichiarato: «Abbiamo scorte di grano e farina, quindi non c’è nessuna crisi del pane».

Il Libano importa la quasi totalità dei beni primari e secondari, avendo le politiche neo-liberiste degli ultimi 30 anni privilegiato settori come quello edile e terziario. L’inarrestabile svalutazione di fatto della lira nei confronti del dollaro – ufficialmente 1507,5 lire per un dollaro – ha toccato punte di 8mila lire nel weekend al mercato nero, dato che le banche da svariati mesi non ne rilasciano più. Il premier Diab ha accusato giovedì il governatore della Banca centrale Salameh di essere responsabile del collasso della lira verso il dollaro.

La crisi economica, come preannuciato a maggio da Human Rights Watch, Banca centrale e lo stesso Diab, sta portando a una forte crisi alimentare, che le stime dicono riguarderà almeno metà della popolazione entro fine anno. E le agitazioni continuano.

Durante la settimana si sono registrati blocchi alle principali arterie del paese, proteste nelle città principali. Giovedì 25 un gruppo di manifestanti è stato caricato dalla polizia davanti al Palazzo di Giustizia a Beirut. Chiedevano il rilascio dei 21 attivisti arrestati per atti di vandalismo e violenza nelle proteste e per aver postato sui social frasi offensive verso il presidente della repubblica Aoun, per cui in Libano sono previsti due anni di carcere.

La situazione è critica ovunque, specialmente nelle zone più povere come Akkar e Tripoli, dove ieri i negozi del suq non hanno nemmeno aperto. La tensione è altissima.

La crisi non riguarda però solo il Libano. L’incremento del Caesar Act del 17 giugno – una serie di sanzioni contro il governo di Bashar al-Assad in Siria e chiunque faccia accordi commerciali con lui – ha mostrato chiaramente che uno degli obiettivi è Hezbollah.

L’ambasciatrice americana in Libano Dorothy Shea, in un’intervista alla tv saudita al-Hadath, ha accusato la settimana scorsa Hezbollah di ostacolare le riforme che garantirebbero l’accesso ai contributi del Fondo monetario internazionale – con cui il Libano è in trattativa per 10 miliardi di dollari – e di altri donor, e ha definito il leader Nasrallah una minaccia per la stabilità del Libano.

A seguito delle dichiarazioni, il giudice di Tiro Mazen ha emanato un provvedimento che multa e sospende le emittenti libanesi che intervistano Shea, accusata di interferenze negli affari interni.

Completamente ignorato domenica dai media locali che l’hanno intervistata e nei quali ha definito «patetico» il tentativo del giudice. L’incidente sembra rientrato, ma è indicativo di una strategia che mai come ora punta all’isolamento del partito sciita.

L’amministrazione Usa ha più volte sostenuto che il Caesar Act non vuole colpire il Libano, ma chi ha legami economici e militari con la Siria. Praticamente Amal e Hezbollah, nella coalizione di governo, che spingono per un incremento dei rapporti con la Siria.

Nel frattempo la popolazione libanese è allo stremo, si prospettano ancora tensioni e una soluzione, per quanto urgente, è ancora lontana.