Il Sud – sì, con la «s» maiuscola – come un vero e proprio stile di vita. Orgoglio, fierezza, cicatrici: il punto cardinale da cui sono partite un’infinità di storie e su cui si fonda tutto ciò che riserva il presente. E lo si può ben dire quando si parla di Ushuaia, la città più australe del pianeta, in quell’Argentina mai così troppo profonda da ricollegarsi comunque all’Italia.

Una cittadina che oggi conta circa 57mila abitanti la cui storia è stata scritta, nel 1948 da una spedizione di oltre 613 italiani, per lo più bolognesi (ma c’erano anche veneti e friulani) partiti sulla nave «Genova» dal capoluogo ligure e sbarcati da queste parti il 28 ottobre di quell’anno dopo 32 giorni di traversata sotto la guida di Carlo Borsari, imprenditore edile e mobiliere, che a quei tempi si aggiudicò uno di quei tanti appalti pensati dal governo di Buenos Aires per lo sviluppo industriale argentino. Di appalti se ne aggiudicarono tanti, tantissimi gli italiani. Borsari arrivò più a sud di tutti, in una landa desolata e senza un vero perché, buona solo, fino a quel tempo, per costruirci un grosso carcere (chiuso proprio nel 1947). Il fascino paesaggistico della Terra del Fuoco, l’amore per le bellezze naturali… Tutti concetti (ri)scoperti con la modernità.

Una parte degli italiani arrivati a Ushuaia nel 1948
Una parte degli italiani arrivati a Ushuaia nel 1948

Al governo argentino di Peron interessava (ri)costruire quella città, popolarla, far fiorire economicamente quelle lande e, grazie a quegli italiani di buona volontà, ci riuscì.

Una spedizione leggendaria

Nell’immediato dopoguerra dello Stivale, con le città distrutte e un’economia da far ripartire da sottozero, la scelta di andarsene – anche dall’altro capo del pianeta – rientrava nella normalità. Quella a Ushuaia fu, a ben vedere, la spedizione più leggendaria, avventurosa, ma che diede i suoi frutti.

D’altra parte le basi erano solide: Borsari, infatti, si premurò di portarsi appresso – oltre a tutto il materiale da costruzione appositamente smontato – anche un parroco e un’insegnante per i bambini.

E se prima «el Fin del Mundo» metteva i brividi, ora è un concetto che riempie d’orgoglio gli abitanti di queste parti, tanto da diventare praticamente un brand turistico e commerciale. Qui tutto gira attorno al fatto che la civiltà finisca in questa cittadina, poi, se si vuole proseguire col Pianeta Terra, si deve essere profondi appassionati di Antartide. C’è il Museo de la Fin del Mundo, le insegne degli esercizi commerciali ripetono la Fin del Mundo come un mantra. E c’è la squadra di calcio di Ushuaia, se mai ce ne fosse ancora il bisogno, a ribadirlo: Los Cuervos del Fin del Mundo.

Un momento della partita dei Los Cuervos con il Real Madrid Rio Grande
Un momento della partita dei Los Cuervos con il Real Madrid Rio Grande

Il Los Cuervos è una società affiliata al San Lorenzo de Almagro, campioni d’Argentina e squadra del cuore di Padre Bergoglio, che – neanche a farlo apposta – si autodichiarò «Papa pescato alla fine del mondo». Da bravi consociati, anche i Los Cuervos vesto il rossoblù, come il San Lorenzo e, non a caso, come il Bologna. Nell’archivio fotografico della famiglia Borsari, spicca una pagina di una rivista anni ’50, in cui si inneggiava a una squadra di italiani che dominava nella «Tierra del Fuego» e che si fregiava di indossare i colori del Bologna, della squadra che tremare il mondo faceva, figuriamoci poi alla «fine»…

«Qui a Ushuaia molte cose ricordano l’Italia – spiega il difensore ventinovenne dei Los Cuervos Marcelo «Chelo» Sanchez -, i negozi di pasta fresca, le insegne in lingua, il fatto che impazziamo per i sughi… Le tradizioni sono rimaste, la gente che ricorda le proprie origini anche, come in tanti punti dell’Argentina. Forse da queste parti ancora di più…».

Campioni sistematici

I Los Cuervos sono il punto di riferimento del calcio distrettuale di Ushuaia, di cui si laureano campioni in carica (così come avvenuto di recente) con una certa sistematicità: inutile mettersi a spiegare il sistema gerarchico del calcio argentino (il più complesso al mondo), basti sapere che ci troviamo al sesto livello della piramide: «E quindi non c’è spazio per gli stipendi, nemmeno per i piccoli compensi ai giocatori – prosegue «Chelo», che si lascia andare alla proverbiale filosofia sportiva argentina -. La mia vita gira attorno alla famiglia e al mio impiego in tribunale qui in città. Il calcio resta puro divertimento: sono in una squadra composta essenzialmente da ragazzi molto giovani. L’umiltà però non deve mai mancare e a quelli che credono che la mia esperienza sia un grande aiuto, faccio notare che il collettivo è tutto e che siamo tutti, allo stesso modo, piccoli granelli di sabbia di una grande spiaggia».

tierra-del-fuego MAPPA

Di giorno in tribunale, di sera sul campo di allenamento. La cornice è quella di un paesaggio incontaminato, unico nel suo genere: «…Dove le montagne innevate strizzano l’occhio all’oceano – descrive con orgoglio Marcelo –. Qui è tutto meraviglioso: ora è estate e ci sono 17 ore di luce al giorno, l’aria è tra le più pulite al mondo. In più la città è tranquilla, per strada non si corre alcun tipo di pericolo: i nostri bambini possono giocare indisturbati per ora all’aria aperta. Certo, non è tutto rose e fiori…».

Già, non solo perché, dopo le estati abbaglianti (in cui, comunque, non si arriva mai a superare i 15-17 gradi di massima), seguono inverni con poca luce naturale a disposizione e dai paesaggi innevati (anche se mai tremendamente ghiacciati), un po’ come quelli che si scorgono in alcuni frammenti del film Diari della motocicletta: «Qui i problemi più grossi sono legati agli spostamenti – prosegue Chelo – Dall’Isola Grande della Terra del Fuoco, dov’è situata Ushuaia, è difficile andarsene. Le distanze col “mondo normale” sono davvero notevoli e uscire da questa terra, per quanto bella e appagante, è costosissimo».

Marcelo
Marcelo “Chelo” Sanchez

«A Ushuaia comunque c’è quanto di più completo una persona dai più vasti orizzonti possa desiderare – chiosa il difensore argentino -, l’incrocio di culture e mentalità è certamente interessante: la città venne fondata come luogo in cui i carcerati avrebbero potuto trasferirsi per ricominciare una nuova vita. Poi arrivarono gli stranieri, molti dei quali italiani, che a più riprese si mescolarono con gli originari della Terra del Fuoco e, col tempo, si è creato un meltin’ pot di ampio respiro».

Un popolo di costruttori

Tornando alla vicenda tricolore, alla spedizione del ’48 ne seguì un’altra nel mese di agosto dell’anno successivo, che porto a quota 1300 presenze italiane a Ushuaia di cui costituivano il 40% della popolazione totale. In molti tornarono dopo due anni di duro lavoro (anche se remunerativo poiché riuscivano a mantenere i famigliari rimasti in Italia), altri rimasero dando seguito alle nuove generazioni in Argentina. Fatto sta che gli italiani costruirono, all’epoca, 140 case prefabbricate, 170 in mattoni (tuttora esistenti), la centrale idroelettrica (attiva fino al 1981) e l’ospedale.

La vicenda delle migrazioni generò anche un’interrogazione parlamentare per presunto sfruttamento, archiviata però una volta appurato che le condizioni di trattamento degli operai erano buone.

La nave Genova
La nave Genova

E al porto che ospitò la nave «Genova», il più importante dalle parti dello Stretto di Magellano, lavora come stivatore il portiere dei Los Cuervos, Federico Romero, o «El Loco», come viene simpaticamente soprannominato: «Io sono di Rosario e vivo a Ushuaia da cinque anni – spiega –. Di questa cittadina mi sono innamorato subito e ho deciso di restare. I paesaggi che si trovano qui non esistono da nessun’altra parte al mondo: sembra di essere in alta montagna, ma allo stesso tempo c’è l’oceano. Certo la vita al porto è dura e le difficoltà più dure arrivano d’inverno: se la neve cade abbondante, non ci si può più muovere, restiamo tutti bloccati qui. Ma, in fondo, non è poi la fine del mondo». O forse sì…