A vederla oggi, La gatta sul tetto che scotta ( in tournée dopo le repliche all’Ambra Jovinelli) può risultare una bella fotografia della metà del ’900 americano: con la sua ricchezza e le sue miserie, i suoi sentimenti grondanti e le ambiguità che la rendono insicura, le sue aspirazioni manifeste o segrete e il calcolo maniacale di autoaffermazione, può davvero somigliare alla grande nazione americana. Anche perché il suo autore, Tennessee Williams riesce a raccontarci la storia di questa temibile ed esemplare famiglia con tanta partecipazione e altrettanto orrore.

Sessant’anni dopo il suo teatro continua a funzionare senza accusare l’età, capace di coinvolgere chiunque, anche lo spettatore più smaliziato, perché in fondo i suoi personaggi somigliano a quelli dei classici antichi, generosi e insufficienti, ambiziosi e disperati, in qualche modo «eterni». Fuori dagli stereotipi ma pur sempre molto riconoscibili, che la regia di Arturo Cirillo immortala in un robusto «film da palcoscenico», tanto più che un filmone di Richard Brooks con Liz Taylor e Paul Newman è il primo e universale riferimento per quel titolo (come capita del resto a molti dei testi fortunati di Williams, dalla Rosa tatuata a Baby Doll e Il tram che si chiama desiderio .

Cirillo sa che gli argomenti del drammaturgo americano sono assai popolari, e si impegna a dar loro una piega e un garbo che eviti lo zucchero come lo stereotipo. E in gran parte ci riesce lavorando sugli attori che in larga misura rispondono brillantemente. La vicenda, come molti ricorderanno, è quella di un matrimonio non «consumato» tra due giovani, lei bella e ambiziosa, oltre che innamorata del suo eroe sportivo; lui bello e impossibile, nel pudore consapevole della propria omosessualità, le offre tutto, dai soldi di famiglia a uno status sociale a una infinita pazienza, meno che il sesso, da cui si astiene preferendogli l’alcol. Intorno a loro la famiglia di lui ricca e sfrontata: il padre ricco trucidone che solo un male incurabile renderà umano, la madre regina di vacui rituali borghesi, un altro figlio interessato solo all’eredità ben coadiuvato dalla propria tremenda mogliettina.

Le infelicità di tutti confluiscono come canali di un bacino idrografico (nel senso delle lacrime) nella tragedia unitaria di quella famiglia/nazione. E nonostante tutto si diventa partecipi di quei dolori swing, che di tanto in tanto alzano la voce, ma che Francesco De Melis accompagna con delicatezza su una tastiera. Sono bravissime la madre e la cognata, due generazioni di attrice di derivazione ronconiana, Franca Penone e Clio Cipolletta (in stato di grazia, forse la migliore apparizione della serata); bravo per intensità e inquietudine il padre di Paolo Musio, ma protagonista vero, tutto giocato in sottrazione, è Vinicio Marchioni il marito no-sex. Senza esteriorità che non siano quelle dell’ingessatura che il ruolo comporta, riesce a dare al personaggio una interiore, continua necessità di elaborazione e autoanalisi.

Più a suo agio che non nel suo Williams precedente, il Tram secondo Latella, dove impersonava Kovalski/Brando, quasi imbarazzato davanti alle scissioni della regia. Qui l’imbarazzo vero è semmai verso il primo nome in cartellone, Vittoria Puccini, che mal sopporta il passaggio dagli schermi grandi e piccoli alla complessità artigianale del teatro. Dovrà lavorare molto per dominare il palcoscenico che scotta.