Troppo facile dire che la situazione culturale di Roma, quanto a organizzazione e responsabilità, sia solo un “pasticcio capitale”. La città più importante del paese assomma e nello stesso tempo irradia tutti i limiti e i difetti delle altre città con alcune spiegazioni fin troppo ovvie. A Roma hanno sede parlamento e governo, istituzioni d’ogni tipo, e poi la Rai, gli istituti di alta formazione, e quindi i luoghi di rappresentanza e quelli di rappresentazione. Nel senso che i salotti son presenti dappertutto, ma qui si intrecciano con tutti quegli altri organismi, per cui ogni inciucio si trova elevato al cubo, e ogni “piccola virtù” (non proprio in senso ginsburghiano) mortificata sotto i rulli asfaltatori, che tanto son poco usati a fini stradali. Con l’aggravarsi sempre più acuto della frattura tra centro e periferia.
Qui esistono anche fenomeni interessanti e fertili, ma regolarmente vengono chiusi o affievoliti col taglio delle risorse. Basterebbe ricordare centri culturali dalle potenzialità assai vivaci come l’Elsa Morante al Laurentino o l’associazione Affabulazione a Ostia, per di più sotto il tiro di Casa Pound. Per non parlare dei teatri di cintura di Quarticciolo e Torbellamonaca “chiusi per ferie” da un anno. Non a caso Michele Placido, volendo motivare il suo endorsement per Marchini, proprio alle periferie ha minacciato di dedicarsi… E ci si è messo pure il commissario Tronca, che dopo aver scoperto l’affittopoli dei ricchi, si dedica con impegno a sfrattare per primi teatrini (come la Comunità di Sepe) o la pratica politica, sociale e umanitaria (e spesso anche economica) dei tanti che lavorano in spazi occupati certo (ma prima in repellente abbandono), cavalcando l’onda della “uscita dal grigio” senza minimamente vederne i colori accesi di umanità.

Del resto, per storia e tradizione, Roma città avrebbe i suoi luoghi istituzionali di cultura, riconosciuti e in misura non lieve finanziariamente garantiti. Il Teatro di Roma innanzitutto, che dovrebbe appunto fornire buon teatro, di tradizione e di ricerca per usare categorie ormai desuete, ma per i quali i cittadini pagano le tasse. E l’ottimo Auditorium, considerato universalmente il miglior luogo di incontro culturale: peccato che con il passaggio del direttore Fuortes all’Opera (che di certo ha intrapreso una bella quanto faticosa risalita), qualcuno in Campidoglio abbia pensato di ricorrere al fatidico “bando internazionale”. Infatti ha vinto un curatore spagnolo. Che ha rinnovato la grafica dell’ente, e controlla minuziosamente i conti nell’amministrazione dell’esistente; una piccola novità, le mostre che si affollano di artisti iberici. Qualcuno gli deve aver fatto notare che per il pubblico romano era necessaria qualche idea in più, e lui ha preso un consulente: un giornalista del Pais. Naturalmente madrileno, claro que si.
Tornando ai teatri, si può vedere dai tamburini sui giornali che sono aumentati a dismisura: nei periodi di punta, arrivano ad occupare un’intera pagina. Ne sono nati moltissimi, piccoli e piccolissimi, ma nella media assolvono alla funzione, certo meritoria, di permettere di mostrarsi agli amatori, e anche ai giovani principianti usciti dalle accademie (a Roma sono una marea). Ma a parte i pochi teatri privati, dall’Eliseo gestito da Barbareschi al Quirino diretto da Glejeses, l’autorevolezza e la responsabilità massima dovrebbero essere pertinenza dell’istituzione pubblica. Il Teatro di Roma ha avuto direzioni altissime e innovative, altre più modeste, ma sempre nel solco di un linguaggio riconosciuto che era quello teatrale. L’attuale gestione ha deciso di rimescolare le carte. Il Valle (che dopo due secoli e mezzo resta la miglior sala romana, per il rapporto palcoscenico/spettatore) sarebbe pure di sua competenza, dopo l’esaurimento dell’occupazione che dopo tre anni richiedeva secondo il Comune un accurato restauro. La sala è chiusa e defunta, ingombrante cadavere come fosse Cavaradossi nella vicina chiesa di sant’Andrea. L’Argentina e L’India funzionano a getto ingordamente continuo, e non solo per spettacoli e fuochi fatui che nella maggior parte dei casi durano una sera o al massimo tre.

C’è un fatidico neologismo che prende sempre più piede dopo l’entrata in vigore del decreto Franceschini: “alzata di sipario”, il cui computo serve forse a rispondere alle norme ora imposte ai teatri “nazionali”. Ma che non si cura minimamente di cosa si trovi dietro la parete di velluto rosso. Il calendario è fittissimo di incontri, conferenze, dibattiti, presentazioni sugli oggetti più disparati. L’avevano precisato programmaticamente il direttore Antonio Calbi e il presidente del cda Marino Sinibaldi al momento del loro insediamento. L’assessora regionale Lidia Ravera sognava addirittura un bistrot dentro l’Argentina. Ma i responsabili dicevano che quel bello spazio centrale doveva diventare il punto di incontro obbligato per i romani, quasi fosse una rotatoria o una pensilina. Senza dover essere la Comédie Française, ma qualcuno dovrà pur essere deputato a conservare un patrimonio culturale nazionale, visto che a quel titolo riscuote i suoi fondi dallo stato e dagli abitanti di Roma. Senza bisogno di entrare nella “qualità” sempre soggettiva degli spettacoli visti (per la maggior parte aurorali) si tratta proprio di fare dei conti. E anche qualche riflessione. Il sindacato dei lavoratori del teatro si è scontrato più volte con la governance. Che, nonostante la forzata austerità, voleva assumere in maniera stabile a dirigere il teatro l’assistente che il direttore si è portato al momento della nomina. Mentre la stessa assistente ha nel frattempo preso la responsabilità artistica di un teatro non secondario come il comunale Verdi di Pordenone. Forse non è vietato, ma certo appare poco sensato farsi concorrenza da soli. Ma i conflitti di interesse compaiono fin sulle locandine del teatro.

Ma, come si è detto, a Roma i salotti e i tinelli contano e operano. E molti, compresi quelli più giovani, sono schierati dentro il Pd. Col risultato che proprio in questi giorni vanno in scena all’Argentina le produzioni di due teatrini romani che pure avrebbero casa a pochi passi. Gli artisti più disillusi non esitano a ricordare che ai tempi delle nomine, e della “perdita di peso” dell’assessora Barca nella giunta Marino, a farne volontariamente le veci era la presidente della commissione cultura del Campidoglio, Michela Di Biase, poi divenuta consorte del ministro Franceschini. Una rete di rapporti e di influenze certo legittima e che si vorrebbe discreta, invece spesso vampirizzata dal Chi di Signorini. A proposito, proprio nei giorni scorsi il giovane gestore di uno di quei due teatrini, Fabio Morgan, è stato incaricato dal ministero della cura artistica niente meno che del Teatro romano di Ostia antica.
Nessun candidato sindaco ha fatto ipotesi sul teatro prossimo venturo a Roma, a parte Giachetti che ha presentato Sinibaldi come suo eventuale assessore alla cultura. Insomma lo spettacolo non è proprio allegro né rassicurante, per nessuno schieramento, non resta che sperare nel buon senso del pubblico romano, bonaccione all’apparenza ma severo de core. Come ai tempi papalini, o anche a quelli di Pirandello, alle cui “astruserie” talvolta preferiva le farse del sor Checco Durante.