In Afghanistan si parla nuovamente di pace. L’occasione è la visita del primo ministro pakistano Nawaz Sharif, che ieri è atterrato a Kabul per incontrare il presidente Hamid Karzai e i rappresentanti dell’Alto consiglio di pace, l’organismo governativo che dovrebbe favorire i colloqui con gli «insorti».
Finora le cose hanno funzionato male: i Talebani dicono di non voler discutere con il governo Karzai, considerato un “fantoccio” degli americani; i pakistani continuano a tenere un “doppio passo”, alternando aperture a atteggiamenti meno concilianti; gli Stati Uniti riconoscono ormai che la soluzione diplomatica è l’unica alternativa, ma spesso si scordano di condividere con il governo afghano le loro strategie. Così è successo a giugno, quando hanno permesso ai Talebani di inaugurare l’Ufficio politico di Doha come la sede di rappresentanza di un governo in esilio. Karzai si è infuriato e ha interrotto i negoziati. Le acque sono tornate calme solo a fine settembre, dopo le rassicurazioni degli americani e dopo il rilascio da parte delle autorità pakistane del mullah Abdul Ghani Baradar, l’ex numero due dei Talebani, arrestato l’8 febbraio del 2010 a Karachi dalla Cia e dai servizi segreti dell’Isi.
Nella sua prima visita da primo ministro a Kabul, ieri Nawaz Sharif ha ribadito quanto già sostenuto nei due precedenti incontri con Karzai (a Islamabad il 26-27 agosto e a fine ottobre a Londra, nell’incontro trilaterale organizzato dagli inglesi): l’impegno del suo governo a favorire il processo di pace. «Voglio che sia chiaro a tutti – ha affermato Sharif nella conferenza stampa finale – che l’Afghanistan è un paese fraterno, confinante, e che un Afghanistan sicuro è nell’interesse del Pakistan».
Il primo ministro pakistano si è assunto l’impegno di «continuare a estendere ogni possibile facilitazione al processo di pace», rivendicando proprio la liberazione del mullah Baradar come segno di buona volontà. Tra i quattro fondatori del movimento talebano nel 1994, uno dei più fidati consiglieri del mullah Omar, il mullah Baradar è una delle pedine della partita negoziale. Formalmente libero, è ancora sotto scacco dei pakistani, che ne controllano gli spostamenti. Pochi giorni fa pare che una delegazione dell’Alto consiglio di pace afghano, guidata dal portavoce Salahuddin Rabbani, abbia potuto incontrarlo. Nulla si sa dei contenuti del colloquio. Poco si sa dell’influenza del mullah Baradar sul movimento talebano (probabilmente ne ha meno di quanto ci si aspetta). Quel che è certo è che continua a essere una pedina dei pakistani.
Karzai ha deciso invece di puntare sull’unica arma di cui dispone: l’ostruzionismo sulla firma per l’Accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, da cui dipende la futura presenza militare americana in Afghanistan e dal quale dipende anche – questo il suo ragionamento – la continuità degli aiuti degli Stati uniti verso il Pakistan (dall’inizio della guerra afghana, Washington ha trasferito a Islamabad più di 20 miliardi di dollari in aiuti, soprattutto militari). Se l’Accordo dovesse saltare – così ragiona Karzai – gli americani se ne andranno, il Pakistan perderà di rilevanza strategica, i dollari svaniranno. Per questo Karzai tira la corda sulla firma dell’Accordo, pretendendo un impegno maggiore sul processo di pace, sia dagli Stati uniti sia dal Pakistan.
Ieri Nawaz Sharif lo ha rassicurato, parlando della necessità di «un accordo politico inclusivo» per «invertire il ciclo distruttivo del conflitto». Ma il suo punto di vista non è l’unico, in Pakistan. Non a caso, proprio mentre Sharif arrivava a Kabul, nella provincia del Kunar, nell’Afghanistan orientale, piovevano 38 missili lanciati dai militari pakistani, secondo quanto riferito da Abdul Habib Sayedkhili, capo della Polizia locale, per il quale nel corso del 2013 i pakistani avrebbero lanciato nella sola provincia del Kunar 1466 missili. Poco più a sud, invece, erano i sostenitori del cricketer Imran Khan, fondatore del partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti), a bloccare la strada ai camion che dal Pakistan portano i rifornimenti alle truppe Nato. In segno di protesta per l’uso indiscriminato che gli americani fanno dei droni in territorio pakistano.