L’immagine iniziale mostra una superficie d’acqua ripresa dall’alto, grinzosa, come accarezzata dal vento, immagine che sfuma in un’altra uguale con l’unica differenza che c’è un quadrato scuro, la cui ombra getta la silhouette di un campanile su quella stessa superficie di colore azzurro chiaro. Poi il titolo in sovrimpressione del documentario: Das versunkene Dorf, il paese sommerso. Quel paese si chiamava Curon e si trovava in Alta Val Venosta. Oggi esiste una nuova Curon situata sulla collina, leggermente più in alto, sulle rive dell’enorme Lago di Resia artificialmente creato nel 1950 mettendo «sott’acqua» un intero paese con tutti i prati attorno.

IL DOCUMENTARIO è di Georg Lembergh e Hansjörg Stecher: il primo ha curato l’aspetto cinematografico e il secondo le ricerche storiche figurando inoltre come produttore. I lavori erano iniziati nel 2003, poco dopo che Lembergh aveva deciso di dedicarsi al documentario, una volta terminati gli studi di fotografia a Dortmund e con alcune mostre alle spalle. Di qui la ricchezza iconografica del film, la densità di informazioni visive, puntualmente accompagnate da informazioni storico-politiche e relative alla costruzione del lago negli anni 1946-50. Quel progetto di ingegneria idraulica fu iniziato ai tempi dell’occupazione fascista dalla Montecatini di Milano, nel 1939, anno in cui gli abitanti dell’Alto Adige dovettero decidere se optare per la Germania nazista o per l’Italia fascista ritrovandosi in mezzo a due fuochi. Soprattutto coloro che decisero di rimanere, scatenando vere e proprie faide all’interno delle stesse famiglie.

QUESTO FU l’enorme punto a favore del progetto: il quesito se andare o restare si era sovrapposto nella popolazione dei due paesini confinanti con i due laghi che dovevano essere uniti, Curon e Resia. Lo dice Luis Messmer (morto nel frattempo) nel documentario e fa un bel quadro di quel momento storico, in cui coloro che optarono per il Reich accusarono di alto tradimento quel 30% che aveva deciso di rimanere e difendere le proprie terre. Questo «attaccamento alla zolla» – come lo definisce l’anziana proprietaria dell’Albergo Uva-Posta, Theresia Theiner – era diffuso, tanto da condurre alla morte per crepacuore persone che dovettero andare altrove, poi, una volta che il paese fu «sciacquato» via dalle acque che si alzarono dopo lo sbarramento con la grande diga…

Procediamo con ordine. Nel 1943 – anno del cambio di guardia in Italia con l’insediamento del governo Badoglio a Roma, mentre andavano a serrarsi i cerchi nazisti sulla penisola, furiosi per l’abbandono della causa da parte dello stato italiano – ci fu un primo stop al progetto del grande lago. Ci fu persino un possibile arresto per difficoltà economiche della Montecatini, se non fossero subentrati finanziamenti svizzeri per farlo ripartire nel 1946. Qui – purtroppo – c’è un leggero gap nell’informazione storica perché non si accenna all’avvenuto cambio di orientamento politico. Forse è in linea con l’opinione pubblica vigente allora, per cui ogni italiano nel dopoguerra era considerato un fascista in Alto Adige perché da anni si era dovuto subire il divieto di parlare la propria lingua, il tedesco? Forse sta qui il motivo per cui nessuno reagì alla comunicazione esposta solo in lingua italiana nella bacheca del comune (prima dell’entrata in vigore dell’autonomia nel 1972, la lingua ufficiale negli uffici pubblici era l’italiano, oggi ogni comunicazione è bilingue e nelle zone della val Gardena persino in tre lingue). Quel testo italiano, dunque, (quasi) nessun curonese fu in grado di capirlo, o forse non era nemmeno passato a leggere le poche righe, in cui si annunciava la ripresa del progetto. Dunque, per «mancanza di reazioni», dall’alto si procedette all’esproprio dei terreni fin lì usati come prati per l’allevamento del bestiame, attività che dava da mangiare a tutti. Furono acquisiti dallo Stato per poche lire, e molti non potevano crederci, tanto suonò incredibile un innalzamento del livello dell’acqua di 5 metri, che di fatto sarebbe stato di 22 metri!

LA NARRAZIONE si serve di una serie di splendide foto in bianco e nero d’epoca (provenienti da fondi storici e archivi privati), immagini di istanti di vita che si animano grazie alle note jazz composte da Marco Annau con suoni che siamo soliti percepire in ambienti simili. Vediamo scene di vita quotidiana dei contadini, di cui si dice che da sempre hanno fatto una vita comunitaria, sul lavoro e nel tempo libero, tutti, uomini e donne, insieme. Anche in un momento duro, dopo la prima prova d’innalzamento delle acque, i curonesi si aiutavano l’un l’altro, nel trasloco e nelle iniziali proteste davanti agli uffici della Montecatini nel vicino paese di Resia. Ben si amalgamano le immagini storiche con le riprese a colori del lago, oggi, e dei testimoni d’epoca nei loro nuovi ambienti di vita. Erano bambini o giovanissimi quando le loro famiglie in fretta e furia dovettero cercarsi altri masi, in altri luoghi, per continuare la propria esistenza. Demolite le case, trasferite le tombe in un cimitero nuovo costruito dalla Montecatini sulla collina assieme a una manciata di baracche per le famiglie rimaste senza tetto, l’unico testimone del luogo antico rimane il campanile, la cui silhouette che spunta dal lago si è vista nella sequenza iniziale, ormai famoso testimone di un tempo che fu. Perché la torre rimase? Dichiarata bene culturale protetto, le sue mura di pietra erano troppo larghe per essere abbattute a colpi di dinamite, come fu fatto con la chiesa accanto e i tanti altri edifici. Oggi quel campanile è il punto più fotografato dai turisti.

UNA VOLTA riempito il lago, partirono gli impianti per creare l’energia elettrica che riforniva le fabbriche lombarde per contribuire all’industrializzazione della pianura padana. Nel film si vedono brani dai cinegiornali Luce, mentre la musica segnala un nuovo ordine: ogni informazione storica è dotata di un diverso brano musicale, creando diversi ritmi di visione. Ora si parla di ricostruzione e delle lotte per avere almeno una parte di risarcimento sull’utilizzo delle acque, lotte che i curonesi condussero attraverso il loro sindaco Albrecht Plangger dopo che i diritti erano passati dallo stato alla provincia. Ormai si è negli anni ’90, e furono necessari non pochi processi contro l’allora presidente della provincia, Luis Durnwalder, prima di ottenere il 3,3% di proprietà dei terreni sotto le acque del lago.

A PARTIRE dal 1999 i livelli di guardia rispetto alla quantità d’acqua sono fissi, onde evitare svuotamenti totali che negli anni passati avevano creato paesaggi lunari nei mesi primaverili, tali da spaventare ogni turista di passaggio. Già la seconda generazione, come lo scrittore Sepp Mall cresciuto da quelle parti, visse il grande lago in modo avventuroso e piacevole, mentre oggi i giovani ci fanno kitesurfing visto che il vento è garantito dall’ottima esposizione geografica. I tempi cambiano e ogni generazione fa il meglio di ciò che si trova davanti. Un film del perdono, quasi, al contrario del memorabile Still Life di Jia Zhang-Ke, leone d’oro a Venezia nel 2007, in cui si narra una storia analoga in un’ampia vallata in Cina.

Risuona la frase del regista de Il paese sommerso Georg Lembergh: «Cosa significa una donna anziana seduta su un camion che deve partire? Nel piccolo qui si racconta una storia di valenza mondiale». Forse per questo l’editore alto-atesino Raetia ha pubblicato il documentario in dvd, con sottotitoli in italiano e in inglese, assieme a un volume fotografico a cura dello stesso Lembergh e di Brigitte M. Pircher, dove trovano spazio le interviste non rientrate nel montaggio. Sfogliare il libro Das versunkene Dorf – lungo 254 pagine, presto anche in lingua italiana – diventa (quasi) un altro film.