All’Italia mancano 3,5 milioni di occupati per raggiungere la media Ue. Un cittadino su 10 rinuncia alla cure sanitarie, fenomeno molto più presente al Sud che al Nord. Bastano questi flash, anche solo queste due immagini per cogliere la gravità del quadro economico-sociale del Paese tracciato dall’ultimo rapporto Istat, pubblicato ieri.

Ma le brutte “notizie”- se così si possono chiamare i risultati dell’inchiesta Istat sul 2014 – non finiscono qui: precariato persistente e diffuso, part time non volontario, lavoro sommerso e irregolare. Le donne non riescono a rompere il “tetto di cristallo” che le separa dalle posizioni più elevate nelle imprese, ma nel contempo sempre più famiglie sono mantenute solo e grazie all’occupazione femminile.

In un quadro così complesso e difficile, c’è però anche una luce, perché il rapporto Istat non è tutto negativo: nel primo trimestre 2015 il Pil è tornato a crescere dello 0,3% «dopo 5 trimestri di variazioni negative o nulle».

Per un’analisi un po’ più approfondita, partiamo da uno dei due dati che ci ha colpito di più, quello relativo alla rinuncia alle cure sanitarie. Problema che non dovrebbe esistere in un Paese che teoricamente assicura il servizio sanitario nazionale (Ssn) come diritto universale: ma è così solo sulla carta. Complessivamente arriva a 9,5% la quota di persone costrette a rinunciare a una prestazione sanitaria, percentuale che scende al 6,2% nel Nord-ovest e sale al 13,2% nel Mezzogiorno.

Numeri che sembrano dire che la forbice del benessere si è ampliata ancora di più negli anni della crisi: e a influire non è solo la diminuzione di reddito delle famiglie, non è solo il peggioramento della condizione di tanti anziani, ma anche la capacità per il servizio sanitario nazionale di offrire prestazioni. Vedi alla voce tagli.

Infatti, se andiamo per regioni, o addirittura per singole Asl, vediamo emergere forti differenze: si passa dal 21,7% di rinunce in una Asl della Sardegna al 2,6% nella Asl di Trento e in una della Lombardia. Nel Nord, infine, si osserva la maggiore concentrazione di Asl che hanno quote non superiori al 5,5% di persone che rinunciano a prestazioni erogabili dal Ssn per motivi legati all’offerta.

L’altra cifra allarmante, che è poi uno specchio della prima sulle cure, è quella relativa alla mancanza di lavoro: in Italia il tasso di occupazione si ferma al 55,7%, «valore molto lontano dalla media del continente», scrive l’Istat, tanto che raggiungere un tasso «pari a quello medio degli altri paesi Ue significherebbe per il nostro Paese un incremento di circa tre milioni e mezzo di occupati».

Attenzione, perché se la ripresa economica ha già cominciato a far capolino, al contrario l’occupazione – come già ampiamente previsto da tanti istituti e soggetti – non si rivitalizzerà tanto facilmente. Nel 2015 si osserva un nuovo calo dell’occupazione, osserva l’Istat: in marzo, infatti, è diminuita per il secondo mese consecutivo (-0,2% rispetto al mese precedente) e il tasso di disoccupazione è aumentato, raggiungendo un livello del 13%. Quello giovanile, nel 2014, ha raggiunto il 42.7%, con punte del 55.9% nel Sud.

Alto anche il lavoro irregolare: pari al 12,6% degli occupati secondo gli ultimi dati disponibili (stime relative al 2012), e guardando alla media del 2010-2012, l’Istat conta 2,3 milioni di irregolari.

Gli italiani sono 61 milioni, gli immigrati residenti 4,8 milioni, e per l’Istat rappresentano «una risorsa», visto che sono «disposti a svolgere lavori per i quali l’offerta dei cittadini italiani è scarsa».

La disoccupazione dura in media due anni (24,6 mesi), e in un anno la sua durata è aumentata di 2,3 mesi (quasi tre mesi per chi cerca la prima occupazione).

Se le lavoratrici fanno ancora fatica a raggiungere le posizioni manageriali e di vertice nelle aziende, dall’altro lato la quota di famiglie in cui la donna è l’unica a essere occupata «continua ad aumentare» e nel 2014 la percentuale raggiunge il 12,9%, pari a 2 milioni 428 mila nuclei.

Nelle sue conclusioni, l’Istat mette l’accento sul Mezzogiorno: «Da molti anni è assente dalle priorità di policy», nota l’istituto.