Giulia Carbone, Clarissa Forte, Zelia Zbogar, Alessandro Amato, Federico De Montis. E con loro Chen Ming, presidente dell’Angi, Associazione Nuova Generazione Italocinese. Vale citarli tutti i cavalieri che a Torino, per il secondo anno, dal 27 al 29 ottobre, hanno fatto la piccola impresa del Dong Film Festival, dedicato al cinema cinese indipendente. Cinque titoli in concorso, ai quali il cartellone, tre le anteprime italiane, ha accostato un cortometraggio, A gentle night, di Qiu Yan, Palma d’Oro nella sezione Corti a Cannes 2017, e l’opera di videoarte Traces of an invisible city di Pan Lu e Bo Wang. Quest’anno lo sguardo del festival si è focalizzato su un tema di forte importanza: la progressiva e inarrestabile distruzione del tessuto culturale, sociale, economico, delle aree rurali in Cina. Tema di cui l’Occidente ha una percezione ben al di sotto della sua reale e drammatica portata. Quando, nel 1978, Deng Xiaoping avviò il programma delle quattro modernizzazioni (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, apparato militare), l’ottanta per cento della popolazione cinese risiedeva nelle campagne. Nel 2014 è sceso al di sotto del cinquanta per cento, e nell’ultimo decennio sono scomparsi novecentomila villaggi. Il governo, entro il 2025, conta di spostare dai paesi alle città trecento milioni di individui. Ancora: i dati della FAO denunciano che il rapporto sulla differenza di guadagno mensile tra un lavoratore urbano e un lavoratore rurale è di uno a dieci. Quanto all’inquinamento, basterà dire che nel fiume Yangtze, oltre duemila chilometri il suo corso, vengono buttati annualmente dalle industrie ventisei milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Solo il dieci per cento delle acque, che i contadini bevono e impiegano per le colture, è sottoposto a depurazione. L’emigrazione verso le città ha creato un fenomeno in costante crescita: quello dei bambini abbandonati dai genitori, almeno sessantuno milioni secondo un sondaggio statale del 2016. Il livello dei salari dei migranti non consente loro di portare con sé i figli, lasciandoli indifesi ed esposti al rischio di venir avviati alla criminalità. Di questo, con taglio cinematografico differente per tessuto e modo narrativo, raccontano i registi scelti da Zelia Zbogar, direttrice artistica del Dong, e dai suoi collaboratori. Dice Zelia «I nostri eventi durante l’anno coinvolgono anche e molto volentieri il genere del documentario. Rispetto al festival, però, lavoriamo soltanto sul film di finzione. Lì cerchiamo lo sguardo critico, l’assenza di quel distacco che il documentario può indurre, portando a dire ‘Succede in un altro posto, non riguarda me’. La finzione, al contrario, immedesima lo spettatore nelle storie; suscita spaesamento e interrogativi». Se la dimensione urbana mostra tutto il suo deficit di pietà nel breve e splendido A gentle night, sono due i titoli tematici della cinquina in gara cui spetta maggiormente il merito di aver saputo creare, appunto, spaesamento e interrogativi. Nelle campagne cinesi e in Last Laugh, Ultima risata, di Zhang Tao, i figli di un’ottantenne resa inabile da una caduta cercano di convincerla ad accettare il destino dell’ospizio. Lin Guoshi, questo il suo nome, lo rifiuta, chiedendo accoglienza a coloro che ha messo al mondo. Il suo viaggio di casa in casa è scandito da richieste di un testamento prematuro, insofferenze crudeli al punto da confinarla in una stalla, figli deboli nel difenderla dal disprezzo delle loro mogli. La risata di Lin, nascosta tra le mani portate al viso, diviene sempre più irrefrenabile e frequente; esaspera gli animi, accresce il rifiuto di un’anziana troppo ingombrante. È pianto, invece. Asciugato nel suicidio dell’epilogo. La storia del film è emblema di una condizione collettiva che il regista denuncia attraverso il realismo di uno scenario lasciato tale e quale: gli interni miserrimi delle case, la povertà del cibo e degli abiti, il fango delle strade, le candele che si consumano davanti agli altari domestici. Uno scenario consono alla disgregazione della famiglia cinese e dei suoi valori ancestrali. Parrebbe impossibile non amare Ling, capelli bianchi, viso dolcissimo, meravigliosa dignità. Diviene possibile tra gente lasciata a sé stessa perché la Cina corre senza più guardarsi indietro. Skype è il tramite per ascoltare in sala le parole di Rong Guang Rong, trentatré anni, vincitore del Dong 2017 con Children Are Not Afraid of Death, Children Are Afraid of Ghosts, I bambini non hanno paura della morte, i bambini hanno paura dei fantasmi, già presentato all’ultimo Festival del Cinema Nuovo di Pesaro. «Spero che tutti possiate dedicare un momento a questi bambini che hanno mosso il mio film. Dedicargli dieci secondi, pensare alla nostra vita e ai bambini attorno a noi». Spunto del lavoro, un fatto di cronaca: il suicidio, in un villaggio dello Guizhou, nel 2015, di quattro fratellini, cinque anni il più piccolo, tredici il più grande, ingerendo un pesticida. La ricerca dei motivi di un gesto così tremendo è costata a Rong l’arresto da parte della polizia locale e il sequestro di tutto il materiale girato. Unica superstite una foto. Ed è intorno ad essa che il giovane filmmaker ha costruito una fiction sotto le mentite spoglie del documentario. Se Last Laugh suscita pietà e sdegno, qui il buio della notte, i primi piani ‘rubati’ dei bambini, il tragitto ossessivo dell’auto di Rong che torna più volte ignorando minacce e intimidazioni, i latrati infiniti dei cani, sono forieri di un senso di angoscia e di vuoto, di una sensazione di impotenza davanti a una vicenda che le autorità non hanno mai voluto chiarire. Probabilmente per tante e nascoste ragioni, certamente perché lontana migliaia di chilometri da Pechino e dalla nuova Cina. Ha vita difficile il cinema indipendente nel regno di Xi Jinping. Clarissa, Giulia, Zelia, che ci hanno vissuto, raccontano di una censura sottile e feroce, di festival cancellati da un giorno all’altro, di no dispensati con un sorriso, di film che mai e poi mai circoleranno in patria, di sceneggiature acrobatiche per aggirare i divieti. Buona via di uscita la offrono ormai da tempo i grandi festival in Europa e nel mondo, da Cannes a Berlino, passando per Rotterdam. Ma anche festival tanto minuscoli quanto coraggiosi. E allora, lunga e felice vita al Dong.

BOX

Durante i giorni del Dong è stato presentato il terzo capitolo della trilogia Una vita cinese, di Li Kunwu e Philippe Ôtié, Add Editore. La Cina viene raccontata nelle tavole e nei testi di una lunga graphic novel, articolata in Il tempo del padre, Il tempo del partito, Il tempo del denaro. Li Kunwu, sessantenne nato nella provincia dello Yunnan, e dunque figlio delle campagne, si è dedicato esclusivamente al fumetto fin dagli esordi del suo cammino artistico. Realizzatore per molto tempo di cartoon di propaganda, oggi si dedica allo studio delle minoranze etniche dello Yunnan. Le sue storie, pubblicate su molte riviste cinesi, hanno riscontrato grande favore in Francia e nel mondo. Ôtié, dieci anni in Asia come operatore economico e bancario, appassionato di fumetto, ha messo a frutto la conoscenza dell’idioma mandarino per lavorare con Kunwu. Di Una vita cinese il Guardian ha scritto “Un viaggio profondamente umano attraverso la storia della creazione della Cina Moderna. Merita un grande pubblico” (lds)