Una tappa di Foto / Industria che riflette con grande coerenza il tema di questa terza edizione (Etica ed estetica al lavoro), è la mostra American Power del fotografo statunitense Mitch Epstein proveniente dalla Collezione Walther che è ospitata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (fino al 19 novembre). Mitch Epstein (Holyoke, Massachusetts, 1952, vive e lavora a New York) ha attraversato ventisei stati americani per raccontare il tema dell’energia (all’inizio, con un assignment del New York Times) tra sopravvivenza e disastri ambientali, in un clima psicologico di forti pressioni. Un progetto sul potere americano nelle sue varie declinazioni.

Lei ha affermato che queste fotografie sono provocazioni formali e politiche, ma anche testimonianze molto personali. Qual è il rapporto tra pubblico e privato?
Non è possibile essere artisti senza difendere le proprie convinzioni con onestà. Certamente, queste fotografie hanno qualcosa di molto personale. La sfida è conservare quell’equilibrio tra la mia prospettiva e la situazione esterna, per poterla vedere con chiarezza. Le foto sono state scattate tra il 2003 e il 2009, nel periodo successivo all’attacco terrorististico dell’11 settembre, quando vivevano sotto codice arancio. Sotto la presidenza di George W. Bush si propagandava la paura. È normale che avessimo paura, ma c’era un timore in più rispetto a quello che non sapevamo che ci sarebbe accaduto. Io stesso, come fotografo che andava in giro per il paesaggio americano scattando immagini di questo genere, ho dovuto fare i conti con quella paura. Sono stato puntualmente fermato e interrogato sul perché continuassi a fotografare. Indipendentemente dalle mie spiegazioni, mi è stato anche vietato di scattare in luoghi pubblici: dicevano che avrebbe messo a rischio le strutture.

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Foto di Manuela De Leonardis

Fotografando con il banco ottico sarebbe stato impossibile passare inosservato…
Ho dovuto davvero mettere molto impegno in questo lavoro. Sapevo ch,e alla fine, mi avrebbero fermato e interrogato. Me lo aspettavo e non mi stupiva. È chiaro che non è la stessa cosa che essere in Afghanistan o in Siria. Non sono un fotoreporter. Ho dovuto comunque cercare di fare uno sforzo per ridurre e, in qualche modo, sfruttare la mia ansia.
Tornando al precedente discorso sull’equilibrio tra personale e pubblico, sapevo che dirmi di non fotografare in un luogo pubblico era anti costituzionale, ma dovevo comunque essere intelligente per tenere a bada sia la mia ansia personale che quella sotterranea che, forse volutamente, era stata trasformata nell’isteria americana e cresceva di giorno in giorno. Per fare un lavoro come il mio che, in un certo senso, è come un atto performativo, avevo bisogno anche di grande concentrazione fisica. L’immagine, infatti, non è concepita finché non entro nel processo stesso della sua realizzazione.

Il suo progetto è partito dalla città di Cheshire con l’incontro con Boots Hern, una donna di ottant’anni che si era rifiutata di vendere la sua proprietà all’American Electric Power…
Un incontro indimenticabile quello con Boots. È stata l’esperienza stessa della morte della città di Cheshire, nell’Ohio, a dare inizio al progetto. Una città costruita all’ombra delle ciminiere che sono così vicine da far sì che la città stessa sia completamente esposta alla contaminazione dell’inquinamento. Ma non è solo una storia dal punto di vista ambientalistico. È stato interessante, per me, capire il significato profondo dell’interconessione delle varie forme di potere che stanno dietro all’energia: dalla produzione al consumo. La figura di Boots ha rappresentato un pretesto per analizzare l’idea della comunità e quella di un’impresa multinazionale in cui sono coinvolte innumerevoli altre entità, dal governo alla polizia. C’è, poi, l’atteggiamento dei singoli individui che si schierano tra quelli che hanno detto «Prendo i soldi e me ne vado» e quelli che, invece, essendo nati lì volevano rimanerci. Cheshire è una città che negli anni Settanta ha vissuto un cambiamento profondo. I fumi che fuoriuscivano dalle sue ciminiere finivano nella parte nordorientale, lungo il fiume Ohio. È stato uno dei motivi per cui è nata l’Epa (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente), che ha cercato di agire sul danno e che adesso, come tutti sappiamo, Trump sta cercando di far fuori. Qualsiasi arte che sia realmente significativa non può non essere provocatoria. Deve instillare paure, dubbi, riflessioni, far vedere cose che non si erano mai notate prima e di cui non si era consapevoli. Fotografare è paragonabile all’esibizione di un musicista che suona sul palco o di un attore quando recita. Non si tratta semplicemente di piazzare l’obiettivo davanti a un paesaggio, o a un qualsiasi altro soggetto. Bisogna trovare una relazione con quel soggetto, modellarlo come fosse una scultura per conferirgli energia, intelletto, senso. Anche la fotografia è un’arte performativa. Conta quello che, in quel momento, si decide di mettere nell’inquadratura per dargli significato, autorità e indipendenza.

«Amos Coal Power Plant, Raymond, West Virginia» ha qualcosa di irreale, sembra quasi l’immagine di un modellino. E così?
La prima cosa che si nota davanti a una foto di paesaggio come questa è la qualità della luce. L’immagine parla da sé. C’è l’ombra degli alberi che fa capire che il sole è dietro e si vede la ciminiera con il fumo che esce, che dà quella dimensione distopica che ho trovato anche a Cheshire. Anche quando il cielo è pulito e non ci sono nuvole, l’atmosfera è piena di pulviscolo e la luce filtra attraverso le emissioni. Se uso il banco ottico non è perché sono nostalgico, ma per via della capacità del grande formato della pellicola di catturare non solo i dettagli, ma soprattutto la qualità dell’atmosfera. Non c’è, in verità, una formula specifica per il mio metodo: questo riflette la mia filosofia che è contraria allo stile. Ogni immagine è a sé stante e deve cercare di essere la rappresentazione visiva di un’idea. È sempre necesasrio mantenere viva la tensione tra forma e contenuto, un concetto molto classico. Cheshire mi ha fatto da modello.
È stata l’esperienza che mi ha permesso di osservare la complessità dei rapporti del potere americano. Non sono partito da un concetto. Il titolo stesso di questo lavoro deriva dal nome della compagnia americana American Electric Power, proprietaria della centrale elettrica di Cheshire, da cui ho semplicemente tolto la parola electricity, diventando così un concetto legato all’idea del potere. Power vuol dire energia ma anche potere. Come fotografo, a questo punto della miaesistenza, dopo aver visto i lavori di Andreas Gursky e Thomas Struth, mi interessava la sfida della fotografia molto grande. Mi sono chiesto se queste mieimmagini avrebbero potuto funzionare in quella scala sia dal punto di vista spaziale che concettuale. La mia fotografia non è un documento, è la conseguenza di due ambiti, documentario e concettuale. Ma non sono interessato alla visione oggettiva, piuttosto all’autenticità della nozione di verità soggettiva.

Fin dalla fine degli anni ’70 il colore è sempre stato una prerogativa della sua fotografia anche grazie all’influenza del cinema, soprattutto dei film di Antonioni e Godard…
Le influenze sono state tante. Credo che l’intuizione sia sempre fondamentale. In qualsiasi attività artistica si parte da un’idea, ma c’è sempre qualcosa che arriva dall’inconscio. Se da una parte fotografare è un’azione performativa, dall’altra è anche un procedimento tecnico. Torniamo alla foto Amos Coal Power Plant, Raymond, West Virginia è la prospettiva di un giardino, una specie di paradiso, in cui ci sono tanti dettagli che interagiscono con la natura. Li vedo nell’insieme, come un medico che ha il paziente davanti e non pensa a tutti gli organi separatamente.
C’è il rosso dei fiori in primo piano, poi dietro c’è quello della macchina. Si osservano gli elementi architettonici, lo stile delle case che è ricorda quello della cassetta degli attrezzi, che però è la versione economica fatta in Cina e venduta nei negozi della catena Walmart. Non ho pensato di costruire la foto mettendo l’albero al centro, ma alla fine è così. Tutto quello che c’è nella foto gira intorno all’albero e permette di avere una profondità dello sguardo. Solo decostruendo l’immagine che si ha davanti agli occhi si capisce la sua reale complessità. Ma, alla fine, tutti questi dettagli contano? Non è necessario spiegare tutto. La cosa importante è che l’immagine susciti un’emozione, una domanda.

 

SCHEDA

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Italia Forza Lavoro (2014 – 2017), presentato per la prima volta in maniera integrale a Palazzo Pepoli Campogrande, in occasione della biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro di Bologna (sotto la direzione artistica di François Hébel), è il progetto in nove capitoli con cui Michele Borzoni (Firenze 1979) ha attraversato i diversi aspetti del lavoro in Italia. Il decimo capitolo fa parte dei progetti futuri ed è anche il più difficile: essendo indirizzato alle acciaierie, ultima industria pesante italiana, richiede permessi non facili da ottenere.
Tra i fondatori del collettivo TerraProject, Borzoni (nel 2010 è stato vincitore del World Press Photo Award, categoria People in the News), ha concepito la sua ricerca ricorrendo a un linguaggio fotografico molto rigoroso. «Negli ultimi dieci anni ho lavorato solo a colori – spiega – Italia Forza Lavoro è fatto tutto in pellicola con la macchina analogica di medio formato. Spesso le foto sono state fatte da luoghi di osservazione alti, alcune volte da una scala. Questo dà all’osservatore l’idea di un maggiore distacco facendolo sentire fuori dalla scena. Sono un fotografo documentarista e ho forti radici in questo ambito ma, diversamente da Robert Capa che diceva ’Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete abbastanza vicino’, penso che la vicinanza, a volte, enfatizzi e drammatizzi alcuni aspetti e, personalmente, non credo che ci sia bisogno di questo. Anzi, una certa distanza lascia all’osservatore non un margine di oggettività (non credo che la fotografia sia oggettiva), ma la possibilità di leggerci quello che crede».
Michele Borzoni non è un fotografo veloce: è convinto che «la lentezza aiuti a entrare in profondità nelle storie, approfondendo i temi». Dai picchetti sindacali ai concorsi pubblici, dalle aste fallimentari allo sfruttamento dei braccianti agricoli, dalla trasformazione del distretto tessile di Prato con l’arrivo dell’industria cinese, ai call center, testimoni di un’economia che non produce più manufatti, ma servizi: nelle sue immagini ha alternato immagini di grandi folle, dove i lavoratori sono masse numeriche di forza lavoro, piuttosto che interpreti del loro mestiere, alle assenze di luoghi dove non c’è più lavoro. Una mappatura senza retorica sull’Italia di oggi, erede della crisi economica del 2009 che ha corroso il futuro, demandando l’ottimismo a un genere d’altri tempi.