È stato da poco presentato il documento finale della commissione istituita dal ministro Massimo Bray agli inizi d agosto, presieduta dal prof. Marco D’Alberti, amministrativista della Sapienza.
I lavori, rispettando i ristretti tempi previsti, si sono conclusi con la presentazione di un corposo documento: un risultato importante, di cui va dato merito alla Commissione e alle capacità di Bray che, dopo una serie di ministri distratti e disinteressati, sta ponendo la questione culturale al centro delle strategie del paese e ridando fiducia a un ministero agonizzante. Il progetto di riforma (la quinta nel giro di pochi anni) contiene numerose proposte utili e importanti. Rischia, però, di non toccare ancora una volta il nodo culturale, metodologico e politico del ruolo del patrimonio culturale e paesaggistico nella società attuale.
Una riforma dell’organizzazione non è un’operazione neutra, meramente tecnica, è l’esito di un progetto culturale, di una visione. L’idea stessa del patrimonio culturale ha conosciuto una radicale modifica negli ultimi decenni, senza che si sia intaccato finora il modello della tutela.
Il modello organizzativo originario del ministero rispecchiava una visione ancora antiquaria (sostanzialmente ottocentesca) dei beni culturali ed era perfettamente coerente con quella concezione. Le successive numerose riforme hanno creato un’enorme confusione, con sovrapposizioni e conflitti di funzioni tra centro e periferia e in periferia tra Direzioni regionali e soprintendenze settoriali. Senza una chiara visione, una riorganizzazione rischia di tradursi solo in un balletto di poltrone, direzioni, uffici.
Ecco la domanda: la nuova organizzazione a quale progetto culturale e a quale idea di patrimonio culturale e paesaggistico si ispira?
A livello centrale si propone un opportuno snellimento, con la riduzione delle Direzioni generali, cui però sarebbero affidati compiti prevalentemente amministrativi, di organizzazione e formazione del personale, di innovazione tecnologica. Una sola Dg si occuperebbe dell’intero patrimonio culturale e paesaggistico, una di musei e archivi, una di cinema e spettacolo, una infine del turismo. Prendiamo il caso dell’archeologia. Nella proposta sparisce la Direzione alle antichità (è questa ahinoi l’attuale desueta denominazione che limita l’archeologia all’antichità!), inglobata in un’unica direzione ai beni culturali e al paesaggio. Verrebbe meno, dunque, un riferimento nazionale per l’intera archeologia. Le decine di soprintendenze archeologiche diffuse nel territorio a chi risponderebbero? Non più alle Direzioni regionali, ma nemmeno ad una specifica Direzione generale centrale.
A livello periferico, infatti, si conserva la coesistenza di Direzioni regionali e di soprintendenze settoriali. Le prime, ridotte di numero, avrebbero solo funzioni di supporto amministrativo e di stazione appaltante per contratti di grande entità, senza competenze tecnico-scientifiche. Le soprintendenze recupererebbero un’ampia autonomia tecnico-scientifica e gestionale: sembra un po’ un ritorno al passato, che però non elimina del tutto la coesistenza di strutture, con un evidente spreco di risorse (Direzioni regionali, con dirigenti di I livello, solo per un supporto amministrativo e rari appalti milionari).
Conservando l’attuale frammentazione, si rischia di continuare a riproporre una visione antiquaria e accademica che separa pezzi di un patrimonio unitario, le architetture e le opere d’arte dalle stratificazioni archeologiche, i muri dalle pitture. Bisognerebbe, invece, affermare anche nella struttura organizzativa una visione olistica del patrimonio culturale e paesaggistico, superando una concezione settoriale e disciplinare. L’elemento comune, il tessuto connettivo, il filo che lega tutti gli elementi del patrimonio culturale è il paesaggio, che andrebbe, pertanto, posto al centro dell’azione di tutela, con una visione globale, diacronica e contestuale.
Un discorso diverso, settoriale, andrebbe fatto, ovviamente, per archivi e biblioteche.
Il modello più coerente con questo tipo di visione dovrebbe prevedere da un lato un centro agile, forte ed autorevole, con compiti di indirizzo, coordinamento, rigido controllo e rigorosa valutazione, garante di una politica di tutela organica sull’intero territorio nazionale, dall’altro unità operative periferiche uniche e non più settoriali, capaci di affrontare il tema del patrimonio in maniera multidisciplinare. Bisognerebbe soprattutto separare la gestione dal coordinamento/controllo/valutazione e superare l’assurda concezione «proprietaria» dei beni culturali, oggi prevalente.
Sarebbe opportuno mostrare fino in fondo il coraggio del cambiamento e di una reale innovazione (che non consiste solo nell’introduzione, pur necessaria, delle tecnologie), costruendo un progetto che guardi al futuro e curando quel torcicollo che costringe molti a guardare, rimpiangendolo, solo al passato. Ma bisogna dirlo con chiarezza e coraggio: le posizioni conservatrici in questo ambito si annidano anche (e forse soprattutto) a sinistra.
Non so se, come ha scritto Tomaso Montanari, ottimo storico dell’arte, componente della Commissione, attivissimo nel dibattito culturale, la riforma rappresenta una «piccola-grande rivoluzione». A mio parere, si dovrebbe essere molto più innovatori, ma servirebbero il coraggio della politica, la capacità di scuotere l’inerzia della burocrazia, la determinazione contro l’opposizione di chi intende conservare posizioni di rendita. È un’impresa difficile ed entusiasmante, oltre che indifferibile: chi ha a cuore il futuro del patrimonio culturale si augura che il ministro Bray voglia realizzarla, con l’impegno e le aperture che sta dimostrando.

Professore di Archeologia, Università di Foggia
. Componente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali