La Triennale di Milano ha aperto al pubblico Porto Poetic, una rassegna curata da Roberto Cremascoli sulle figure chiave dell’architettura portoghese degli ultimi venti anni (visitabile fino al 27 ottobre). Le opere dei celebri esponenti della «Scuola di Oporto», Álvaro Siza, allievo di Távora, e Eduardo Souto de Moura, a sua volta allievo di Siza, raccontano l’evoluzione del progetto di architettura in Portogallo, attraverso i disegni originali, le visioni dei fotografi, i plastici e le video-interviste. «Si è parlato e si parla molto della Scuola di Oporto, ma nessuno sa bene che cosa sia – ha spiegato Souto de Moura – Se dovessi illustrarne il pensiero, la metodologia non saprei da dove iniziare… Sicuramente, ci sono degli aspetti che hanno identificato quest’architettura, altrimenti oggi non saremmo qui, ma tutto ciò per noi è avvenuto e avviene inconsciamente. Non posso dire ci siano un programma e delle caratteristiche stabilite. Posso riconoscere piuttosto delle invarianti, che emergono in uno specifico contesto geografico e restituiscono delle atmosfere… In questo senso, siamo riconoscibili e quando, ad esempio, si sfogliano le riviste di settore risulta assai facile sostenere: «’Ah sì, quest’opera è in Portogallo!’».
La mattinata della preview, Eduardo Souto de Moura (Pritzker Price nel 2011) e il maestro Álvaro Siza (Pritzker Price nel 1992) sono arrivati a Milano accompagnati in Triennale dal curatore della mostra; un breve giro per l’esposizione, ancora in allestimento, e poi la lunga serie d’interviste, a due voci, e una lunga serie di sigarette, per Álvaro Siza.
Entrambi hanno mostrato una grande lucidità e consapevolezza rispetto al difficile momento che il Portogallo sta attraversando. Ma alla domanda sul ruolo dell’architetto nello scenario attuale hanno risposto con ottimismo: «La situazione è molto complessa, è vero – ha asserito Souto de Moura -, ma non esiste architettura senza problemi, sono questi ultimi a renderla migliore. Stiamo attraversando senza dubbio un brutto momento, quello che si può fare però, perlomeno nei paesi colpiti dalla crisi, è lavorare con la città esistente, il che non significa esclusivamente recuperare il centro storico e i monumenti in senso conservativo, quanto piuttosto intervenire in maniera operativa e recuperare ciò che c’è già per costruire poi le basi di un futuro. Il lavoro in questo senso c’è… Posso essere pessimista sul lato economico, ma per noi architetti c’è molto da fare e, in questo senso, mi sento di essere ottimista».
«Stiamo vivendo sotto una dittatura – è intervenuto Siza – abbiamo lottato tanto per essere liberi e adesso siamo sotto un regime ancora più rigido e incontrollabile. Questa Europa doveva nascere come ’Europa della solidarietà’, intesa come condivisione delle condizioni politiche e economiche tra il Nord e il Sud, ma oggi questa situazione si sta trasformando in una ’solidarietà delle cattive condizioni’. Il Nord sta risentendo progressivamente dell’ondata di povertà del Sud, e in questo processo sta aumentando la consapevolezza dell’importanza della storia e della cultura mediterranea. Penso questo riconoscimento del peso culturale dei paesi più colpiti possa essere cruciale per il nostro lavoro, per lo sviluppo del turismo, e per superare questo periodo di crisi».

Le occasioni di costruire ex-novo sono sempre più esigue. Ci sono minori opportunità di realizzare nuove architetture e la progettazione sembra piuttosto richiesta nell’elaborazione e nei processi mirati alla trasformazione. Che influenza ha tutto ciò nel vostro lavoro?

(Souto de Moura): C’è stato un cambiamento, soprattutto nel rapporto con la committenza pubblica. Fino agli anni Ottanta, l’architetto era invitato a realizzare delle «icone», opere che conferivano forza e concretezza ai programmi dei candidati. In qualche modo, l’architettura rientrava nella sfera politica. Oggi questo avviene molto più raramente. I sindaci, i politici hanno meno soldi e quando chiamano l’architetto è perché devono risolvere problemi reali, concreti: non si parla più di «grandi gesti», si chiedono piuttosto ristrutturazioni, interventi puntuali, «chirurgici». Penso questo passaggio sia fondamentale per restituire una dimensione concreta e operativa al nostro lavoro.
(Alvaro Siza): In questo momento di cambiamento, gli architetti – parlo soprattutto alle generazioni più giovani – devono spingersi verso le realtà emergenti e aprirsi alla diversificazione culturale e costruttiva. Il programma Erasmus è una sollecitazione importantissima, forse l’unica cosa buona istituita dalla Comunità Europea. I giovani progettisti non vanno indirizzati verso una specializzazione dei saperi, quanto piuttosto invitati a coltivare lo slancio produttivo verso le opportunità dei paesi in crescita, come il Sud America e i paesi dell’Oriente».

Pensa che un’architettura debba durare un tempo stabilito? È più importante saper progettare un’opera che sappia rispondere perfettamente al suo programma originario o progettare uno spazio in grado di accogliere altri usi e diversi cicli di vita?

(Á.S): Mi vengono in mente gli architetti italiani del Futurismo: ritenevano che ogni epoca avesse la propria città e che gli edifici dovessero durare un tempo stabilito, massimo venti anni, per poi essere demoliti e sostituiti. Credo, al contrario, che quando si progetta un’opera sia fondamentale centrare la funzione, il servizio che deve svolgere ma, allo stesso tempo, bisogna garantire le condizioni attraverso le quali l’edificio possa poi liberarsi dalla sua struttura funzionale, aprendosi a molteplici usi e significati. In questo senso, il convento è un ottimo esempio di un’architettura che viene originariamente pensata per una comunità specifica, destinata a rispondere, nei secoli, ad abitudini e costumi precisi ma che, una volta esaurito il suo scopo originale, riesce a trasformarsi, accogliendo altri usi e funzioni.

Il rapporto col sito, il dialogo con la natura, il disegno delle aperture verso il paesaggio, lo studio della luce del Mediterraneo hanno fatto parlare dell’approccio emotivo, della dimensione poetica dell’architettura della Scuola di Oporto, soprattutto a partire dalle sue prime opere. Si riconosce in queste definizioni?

(Á.S): In realtà, questo tipo di architettura è il risultato di un processo estremamente razionale, di un metodo di studio e di lavoro che disciplina gli aspetti più istintivi e ne regola i rapporti col paesaggio, la storia, la costruzione. La dimensione emotiva di alcune architetture è dunque l’esatto contrario di quello che si può pensare, ovvero di un approccio passionale al progetto e al luogo. Tutti proviamo entusiasmo, bisogna poi studiare e avere esperienza per depurare e filtrare gli slanci, per raggiungere una dimensione poetica nei rapporti tra i vari paesaggi e l’architettura che si sta progettando.