La descrizione del paesaggio che introduce l’autobiografia Volevo la luna di Pietro Ingrao è condotta nel rispetto delle regole della periegesi antica ove si profilano i contorni d’un territorio percorrendolo secondo i tragitti che vi hanno tracciato gli accadimenti intercorsi nel tempo, eventi conservati in una memoria tanto tenace da conferire ai luoghi un loro riconoscibile senso.

Pagina improntata, non per caso, al tempo imperfetto a denotare una dimensione che permane costante e dura intatta tra presente e passato. Credo sia opportuno tenere in particolare conto questa viva congiunzione tra inalterato e mutante che il ricorso all’imperfetto consente di restituire nella scansione di un non compiuto che si attesta come un per sempre.

È probabile che in Ingrao un ammaestramento alla natura e ai luoghi sia stato precoce ed abbia alimentato la sua educazione al paesaggio. Sta di fatto che, in una raccolta di conversazioni con Ingrao che Maria Luisa Boccia e chi scrive ha raccolto con il proposito di pubblicarla sotto il titolo Verso la Grotta di Tiberio, Ingrao ricorda: «Mia madre, Celeste Notarjanni, conservava, tra altre carte di famiglia e scritti, il celebrato Viaggio per l’Ausonia. Rammento d’aver letto, ragazzo, quelle pagine dove Francesco Antonio Notarjanni descrive, agli inizi dell’Ottocento, i luoghi e i paesi che si stendono fra il Liri, i Volsci e il mare e rintraccia negli scrittori classici, nei reperti e nelle iscrizioni, la vicenda degli antichi Ausoni».

La ricostruzione storica, attestata nel culto dei monumenti, sancisce l’identità d’un luogo. Quando è in grado di restituirgli un nome, la nomina, evocandola dall’oblio secolare e, col nome, ne consegna al presente l’antica grandezza. Notarjanni, si avvale nei suoi scritti sulla formiana regio, del passato remoto e del presente. Ingrao ricorre all’imperfetto. Perché?

Chiediamoci: che significa paesaggio?

Una domanda tanto esigente solleva molte questioni. Per impostare una riflessione mi avvalgo della Pala della Annunciazione, con i santi Onorato e Mauro di Cristoforo Scacco, realizzata dall’artista padovano nel 1499 per la chiesa cattedrale di San Pietro a Fondi.

Nel comparto di sinistra della venerata tavola si contempla Sant’Onorato. Sostiene in palmo di mano il Castello baronale di Fondi. Ne riconosciamo la invitta torre cilindrica del maschio, eretto da pochi anni, quando Cristoforo lo raffigura. Ed ecco, il santo protettore lo eleva nello splendore dell’alto dei cieli, lo preserva nel tempo imperituro della gloria. Così la salma di Onorato aveva preservato Fondi dal contagio di morte che incrudeliva, nell’anno mille duecento quindici di nostra salvezza. Ora custodisce, intatto ed intangibile, il monumento eponimo della città. Una volta per sempre.

Simultaneamente, qui, davanti a noi, nel castone d’un altro comparto della Pala, portando noi lo sguardo tra le aeree quinte formate dai due corpi angelici, di là del pavimento della stanza di Maria, scorgiamo netti il Castello e il contiguo Palazzo Caetani, delineati da Cristoforo sur le motif, immersi nella dimensione dell’ora quotidiana, presente e viva. Ne sentiamo il suono. Ci giunge con le voci dei tre uomini appiedati – il primo qualche passo avanti – e del quarto, a cavallo, che, oltrepassato l’arco gettato a collegare Palazzo e Castello – sotto il quale altri due vediamo indugiare – procedono ora lungo il muro donde verdeggiano al sole le fronde primaverili di delicate piante, nel venticinquesimo giorno di marzo, a Fondi, poca gente in strada.
Il dipinto di Cristoforo Scacco crea un «paesaggio», combinando eternità e quotidianità lo produce, lo colloca di fronte a noi e lo affida alla nostra recezione. Si attesta come paesaggio inducendo lo stato d’animo che alterna effimero ed eterno.

Verifichiamo nelle coordinate della Pala dell’Annunciazione il tempo immutabile della gloria e il tempo transeunte dell’esistenza nostra accolti nello spazio della nostra riconoscibile dimora.

Paesaggio si converte in dimora. Il luogo natale anima una identità interiore partecipata con altri in termini tali, corrispondenti tanto, da connotare una condivisa appartenenza.

Nella pala di Cristoforo Scacco, l’annuncio del Verbo che si fa carne fiorisce in Gloria. Sovrasta per un verso e per un verso risiede, si accampa. Quell’accadimento epocale innalza al cielo il Castello nelle mani di sant’Onorato e si appoggia, tocca terra nel Castello di Fondi e nel Palazzo Caetani, lungo il recinto del giardino chiuso, abbiam visto. Effimero e permanente.

«La durata intrinseca e specifica della città, la sua intensità – ha scritto Rosario Assunto – il tempo che in essa rappresenta se stesso nello spazio, anzi come spazio; la successione che nella città si capovolge in simultaneità. Il tempo della città, la durata della città, la sua successione, è il tempo della storia, la successione e durata della storia. Epoche ed eventi, istituzioni, e credenze, e costumi, e culture successive, che diventano simultanee nella immagine spaziale della città».
Chi sia nato a Fondi, ogni qual volta volga lo sguardo alla torre del Castello, sa di soffermarsi là dove si sono poggiati gli occhi dei suoi per anni e anni, i vivi e i morti: «vive insieme – dice Assunto – il presente e il passato: istanti nei quali l’oggi con le sue cure e i suoi interessi e le sue attese è insieme se stesso e una età remota: quella delle costruzioni che ci attorniano, del tracciato che percorriamo». Mentre trascorre le ingiallite pietre dell’imponente antica fabbrica, quel suo sguardo disegna un’architettura della mente, conduce a un edificio che egli trova costruito dentro sé stesso, lo invita ad attraversare le vaste aule che in ciascuno di noi si aprono secondo una successione di ambienti, una teoria di stanze quali Agostino per primo, forse, ci indusse a visitare: noi, esortati ad aggirarci partecipi nei transiti della nostra memoria.

«Grande – dice Agostino – è questa potenza della memoria. Ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me».

Speculare osservando, «ospitare nella mente», intus in memoria mea, con l’attitudine di chi voglia intendere il mondo in un contatto libero da ragioni strumentali e mosso, invece, da pressanti domande intorno a un suo arduo significato. È questo un sentimento che Ingrao conosce bene, costante in lui nel corso degli anni e più volte accostato in forma dilemmatica alla dimensione operativa e trasformatrice che ha animato il suo impegno politico. Fino a dare un senso di interrogazione e problematicità ai meditati bilanci e alle intense riflessioni che Ingrao ha dedicato alle vicende del comunismo dopo il 1945. In una delle conversazioni, delle quali ho avuto modo di far cenno, Ingrao torna, sul filo della memoria, alla casa natale e ai luoghi della sua prima infanzia, a Lenola.

Riguardo ai significati racchiusi negli stilemi del paesaggio ai quali Ingrao, con particolare predilezione, anche in questa pagina ricorre, uno, e di rilevanza speciale, pare condensato in frasi come «si formulava per me la parvenza dell’isola come un da raggiungere. Un da raggiungere che emergeva e svaniva sul filo dell’orizzonte».

Le cose impossibili, titolo d’uno dei libri di Ingrao sono le «cose» che travediamo, che traguardiamo come oltre. L’oltre, una costruzione della mente che finge interminati spazi e, poiché dispone lo spazio effettuale ad una determinata composizione prospettica, fa, del luogo sentito come apertura a un da raggiungere, un paesaggio.

Mobili nell’indurre, nel configurare un oltre i persistenti fondali ausonii di Ingrao. Come nella antica pala d’altare di Cristoforo Scacco, il paesaggio nella pagina di Ingrao si apre ad accogliere, nella descrizione di un luogo determinato, una posizione dell’animo e della mente, della conoscenza e della emotività, cioè dello spirito.

Una natura allusiva dunque, nelle sue parole, quella del paesaggio natale. Allude alla combinazione di presente e di passato. Quotidiano e memoria. Il qui e l’oltre.

V’è per certo un paradigma che mostra con perfetta evidenza i nessi tra presente attuale e presente inattuale, tra atto della Gloria e attuosità della determinazione quotidiana, nel giorno per giorno della vita di ciascuno.

Tale paradigma, raffinatosi lungo i secoli nell’ordine teologico, ha fornito un parametro costante di valenza politica alle istanze di liberazione intese ad affermare l’integrale dignità di ciascuno e di tutti.

Si dice che tali ragionamenti portano inutilmente lontano, che ci allontanano dalla effettiva, concreta condizione del nostro esistere. Dovremmo, invece, credo, e al contrario, convenire che questi ragionamenti ci mantengono vicini a noi stessi.

Si dice «paesaggio», e, con paesaggio, troppo di frequente, si intende una mera conformazione della natura, un sito. Ma il paesaggio sito non è. Paesaggio è dimora. E dimora è una determinazione dello spirito. Ogni violenza cieca che alla dimora, al paesaggio, sia recata, come constatiamo ogni giorno, sfigura e viola e, infine, è noi che uccide. Noi, il paesaggio interiore, quella cognizione dei tempi che conferisce senso ai luoghi, la stessa che si dà in figura di luogo alla nostra consapevolezza. La dimora, ove convergono e si custodiscono permanenza di memoria ed esistenza, ovvero corrispondenza di affetti e costrutti di senso.

Pietro Ingrao è un uomo che si confronta con crudeli accadimenti nel corso della sua lunga vita, mosso da una determinazione attiva, da una partecipazione appassionata ai casi del suo tempo.

Nella fedeltà al paesaggio, l’ager formianus, la dimora che con tanta intensità sente sua, Ingrao, se la lettura che abbiamo qui svolta non è errata, richiama alla responsabilità che la dimora conservata entro di noi comporta.

In essa è un lievito che alimenta lo spirito di libertà al quale Ingrao impronta la sua vita.