«Entro due settimane i primi incontri tra la Repubblica islamica d’Afghanistan e i Talebani». L’annuncio fatto ieri dal governo afghano, se confermato dal movimento islamista armato, segnerebbe una svolta nel processo di pace.

L’annuncio arriva a poche ore dal comunicato del Dipartimento di Stato in cui il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e il presidente afghano Ashraf Ghani dichiaravano che «è tempo di accelerare gli sforzi per raggiungere una fine negoziata della guerra in Afghanistan».

Un messaggio che rivela l’impazienza dell’amministrazione Trump di portare a casa l’accordo che l’inviato speciale della Casa bianca, Zalmay Khalilzad, sta negoziando da mesi con i Talebani, fin qui contrari a incontrare gli esponenti del governo di Kabul.

I Talebani vorrebbero prima chiudere la partita con gli americani, poi discutere con gli altri afghani. Khalilzad insiste invece che il suo è un pacchetto «tutto completo».

I quattro punti della bozza di accordo concordata lo scorso gennaio devono tenersi insieme: ritiro delle truppe americane, garanzia dei barbuti che il Paese non diventi un santuario dei jihadisti a vocazione globale, dialogo intra-afghano e un cessate il fuoco.

Khalilzad in queste ore è di nuovo a Kabul, dove accumula incontri su incontri. Servono a individuare i membri della delegazione che dovrà incontrare i Talebani, inclusi alcuni rappresentanti della società. E a rassicurare l’alleato principale, il presidente Ghani. Prima nervoso e scalpitante, ora Ghani è più a suo agio: c’è chi legge la nota congiunta del Dipartimento di Stato come un endorsement.

La campagna elettorale per le presidenziali del 28 settembre è iniziata e Ghani è tra i candidati favoriti, insieme all’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Hanif Atmar e al quasi «primo ministro», Abdullah Abdullah, storico antagonista con cui Ghani ha dovuto condividere 5 anni di forzata coabitazione al governo.

L’amministrazione statunitense non dimentica che il primo atto della presidenza Ghani, nel settembre 2014, è stata la firma dell’Accordo bilaterale di sicurezza che garantisce la presenza delle truppe americane e l’uso delle basi in Afghanistan fino al 2024.

Non lo dimenticano neanche i Talebani, per i quali – come dichiarato martedì dal portavoce dell’ufficio politico dei barbuti a Doha, Suhail Shaheen – l’attuale governo e l’attuale sistema istituzionale/costituzionale vanno cambiati.

Eppure Shaheeh ha anche detto che i militanti del gruppo potranno entrare a far parte di un esercito nazionale, una volta cacciati gli occupanti. Sulle riforme politico-istituzionali i Talebani sembrano aver poco da dire, o preferiscono rimandare la discussione per evitare spaccature.

Il movimento è policentrico: se è facile trovare una voce unica quando si tratta di negoziare l’uscita degli occupanti dall’Afghanistan, non lo è invece trovare un’intesa sul «che fare» dopo il ritiro Usa. Potrebbero a quel punto manifestarsi le spinte centrifughe che la strategia di cucitura del leader, Haibatullah Akhundzada, e le pressioni degli sponsor stranieri hanno fin qui trattenuto.

Sul quando, sui tempi del disimpegno delle truppe straniere, si gioca una partita cruciale proprio in queste ore: insieme a Khalilzad, Pompeo ha inviato a Kabul il generale Joseph Dunford, capo degli stati maggiori riuniti. Si tratta di decidere quanti soldati ritirare e quando e cosa ne sarà delle basi militari. I barbuti fanno sapere che l’accordo potrebbe essere vicino. Se dovessero confermare che incontreranno presto i rappresentanti di Kabul, vorrà dire che avranno accettato il «pacchetto-Khalilzad».