Parla sempre, quindi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ma l’ultima dichiarazione di Renzi è una perla, surclassa lo stesso Crozza. «Oggi mi preoccupa lo spread del populismo, tra ciò che si aspettano da noi i cittadini e ciò che vedono realizzato nella vita di tutti i giorni». Se le parole hanno una logica, è colpa dei cittadini sentirsi frustrati per la mancata realizzazione delle proprie aspettative. Per non essere «populisti» bisogna godere nel venire delusi. Sagace. Soprattutto da parte di uno che di populismo se ne intende per davvero.

Com’è sagace la pronta reazione di Luciano Violante al sovversivo pronunciamento del tribunale di Venezia in merito alla soglia di sbarramento per le europee. «È meglio che lo sbarramento rimanga». Naturale. Da vent’anni Violante e i suoi simili vandalizzano la Costituzione, riducendo a un simulacro quel parlamento che i Costituenti consideravano fulcro della struttura democratica. Dalle rovinose «riforme» istituzionali degli anni Novanta in poi lo sbarramento è lo strumento principe per mezzo del quale si è instaurato l’oligopolio della rappresentanza, secondo il modello bipolare che nient’altro significa se non la riduzione della politica ad amministrazione da parte di un grande centro. Nel quale, escluso ogni confronto tra interessi sociali confliggenti (e tra modelli alternativi di società), ci si distingue soltanto in base a prossimità personali, appartenenze e competizioni tra interessi omogenei.
Poi ci si stupisce della marea astensionistica, oltre che del «populismo». E si finge di allarmarsi. Da ultimo il presidente Napolitano ha detto la sua, entrando ancora una volta a gamba tesa nella dialettica politica. Bisogna fare a tutti i costi le «riforme», sennò lui non lascia il Quirinale, dove – è noto – è stato costretto a rimanere. Quindi il 25 maggio non ci si può astenere, né si può esprimere dissenso nei confronti di questa meravigliosa Europa. Ma con ogni probabilità la condanna dell’astensionismo è una commedia. Che quel 35 o 40% pericolosi «populisti» non votino è un bene, così non faranno pesare l’insoddisfazione di cui sono colpevoli. Dopodiché, passato il turno elettorale, tutto tornerà nei binari. Si piazzerà, al posto di Tajani, il derelitto Letta o il sempreverde D’Alema. E potrà ricominciare il beneamato tran-tran.

Almeno si spera. Perché le cose potrebbero non andare così, e proprio il fenomeno Renzi legittima qualche dubbio. Non è assodato che la quotidiana aggressione alle regole, alle istituzioni, persino alla logica sia espressione di forza. Si dice: Renzi afferma il primato della politica. Così si legge l’urto con Pietro Grasso, presunto rappresentante della «società civile» (anche se nello scontro sulle coperture dei fantomatici 80 euro il presidente del Senato difende la dignità di un’istituzione della Repubblica). Si dice anche: Renzi e Grillo sono figli di Berlusconi, incarnano l’idea leaderistica di «uomini soli al comando» che decidono tutto, all’occorrenza contro tutti.

Insomma, Renzi come un simbolo di coraggio e volontà indefettibile. E di chiarezza d’intenti in una grande visione. Ma c’è un’altra lettura possibile. Quella solitudine del nocchiero potrebbe non essere scelta, ma necessitata. Potrebbe rispecchiare la distanza ormai siderale della politica (e dello sciame di interessi malavitosi che la attraversano) dalla realtà sociale del paese. E potrebbe essere l’espressione dell’attitudine, in senso proprio reazionaria, di un sistema di potere che si barrica in se stesso per difendere i propri privilegi. «Sbarrando» appunto le vie d’accesso dall’esterno e realizzando la scissione tra rappresentati e rappresentanti. Un divario a fronte del quale è sempre più complicato parlare di democrazia.

Sbaglieremo, ma non ci pare di respirare un bel clima in giro. Qualunque sarà l’esito di queste elezioni (che potrebbero riservare qualche sorpresa) un verdetto sembra già emesso. Scollamento, crisi di fiducia, risentimento. Non soltanto in Italia, ma qui con particolare evidenza.

Ovviamente il presidente della Repubblica ha provveduto a tirare le orecchie a chi dà voce a questi sentimenti, pensando che il guaio consista nel rappresentarli, non nel fatto che essi dilaghino. Dovrebbe chiedersi piuttosto – ne ha il preciso dovere – in che misura sentimenti del genere siano fondati, e da dove sgorghino. E, data la sua storia politica, dovrebbe anche domandarsi che cosa, per prevenirli, abbia fatto in questi anni, in Italia e in Europa, la parte che avrebbe dovuto difendere il lavoro dipendente e l’occupazione, l’equità e il welfare, la scuola e l’università pubbliche. La parte che più di ogni altra avrebbe dovuto battersi per lo sviluppo economico del paese, affermando le prerogative del pubblico in materia di politica economica e industriale, contro la speculazione finanziaria e l’arrembaggio dell’affarismo privato.

Invece no. Meglio colpevolizzare il malcontento, tacciarlo di irresponsabilità o di gufaggine, come ama fare il nerboruto «capo del governo». Meglio lanciarsi in battute o in sermoni austeri. E magari puntare sulla rassegnazione collettiva riproponendosi di avere mano libera. Può essere un calcolo corretto, ma anche un errore. Sicuramente è un azzardo, perché una crisi generale di fiducia può scappare di mano e dare luogo all’incendio per il quale in tanti già lavorano. Con o senza croci celtiche sugli stendardi.