L’Altra Europa è nata mettendo in campo alcune idee: la centralità dell’Europa per qualsiasi processo di trasformazione politica, il rifiuto dell’austerità e la necessità di ripudiare il debito, l’inclusione nei confronti di migranti e minoranze di ogni genere, la conversione ecologica come unica prospettiva per affrontare la crisi ambientale e quella economica e occupazionale, il carattere apartitico della lista (confermato dall’esclusione della candidatura di rappresentanti già eletti o persone con ruoli di spicco nei partiti); poi raccogliendo adesioni intorno a questa piattaforma e immergendosi nella società – nelle piazze, nelle assemblee, nei luoghi di lavoro – per raccogliere le firme e farsi conoscere; infine gestendo senza mezzi una campagna elettorale affidata quasi solo a incontri diretti e al passaparola.

Dopo il 25 maggio, con il modesto successo ottenuto, occorreva valorizzare i legami messi a disposizione dal suo ingresso nel Parlamento europeo e nel GUE e, anche grazie ad essi, mettere quella piattaforma alla prova sia dei problemi, nazionali e locali, posti all’ordine del giorno dallo sviluppo degli avvenimenti, sia dei rapporti con le organizzazioni, di base e non, locali e nazionali, che non avevano preso parte, o avevano guardato con diffidenza, a quel percorso. Entrambe queste cose sono state fatte poco e male, incagliando l’organizzazione in una vana contrapposizione tra l’impegno a mantener vivo l’orizzonte europeo del progetto e la necessità di misurarsi con le emergenze, anche e soprattutto locali, del “fare politica” giorno per giorno. Di questo contrasto la disputa sull’opportunità di presentare liste regionali che si richiamano esplicitamente all’Altra Europa è stata forse il centro.

L’Altra Europa non si è presentata in Europa, né si presenterà in Italia, o si presenta in qualche Regione o in qualche Comune, per “amministrare bene” l’austerity: cioè la miseria che politiche decise altrove ci impongono (questo è l’approccio che ha affondato l’esperienza dei sindaci arancioni); bensì perché i parlamentari, i consiglieri ed eventualmente i sindaci eletti si facciano strumento di aggregazione per le mobilitazioni contro di essa. Per questo le liste regionali che si rifanno all’Altra Europa, oggi in Emilia Romagna e in Calabria, sono parte integrante del processo di promozione di un soggetto politico nuovo, indipendentemente dai risultati che conseguiranno, e a cui occorrerebbe lavorare perché siano positivi. Quelle liste sono una componente della costruzione di un programma generale; che non è solo enunciazione di obiettivi, ma anche ricerca e verifica della loro efficacia nel promuovere mobilitazione e radicamento sociale.

Oggi il discrimine tra chi governa e chi ne combatte modi e obiettivi attraversa il nesso tra crisi ambientale ed economica: è la conversione ecologica come combinazione irrinunciabile delle risposte a entrambe quelle crisi. L’establishment europeo e italiano, ma anche la governance globale, si trovano da tempo senza una strategia di ampio respiro, limitandosi a rappezzare giorno per giorno i guasti che essi stessi producono. P. untano a comprimere redditi e diritti della popolazione al limite della sussistenza (e anche oltre), a distruggere lo stato sociale e a privatizzare tutto l’esistente, a partire da quanto resta di natura, patrimonio storico, beni comuni e servizi pubblici. Ma questi obiettivi non configurano un assetto sociale stabile; sono la sommatoria di spinte e interessi discordanti che mal si combinano insieme, tanto da suscitare stati di caos e di belligeranza armata permanente, ormai evidenti tanto nell’economia europea che nei nuovi teatri di guerra. Un caos che è stato sì provocato da soggetti e interessi ben identificati; ma che è da loro sempre di più subìto e non agìto. Che cosa possono promettere alle popolazioni di cui devono comunque ottenere il consenso, per lo meno passivo? Solo il ritornello di una “crescita” che né arriva né risolverebbe alcunché. E che cosa possiamo invece prospettare noi, con la conversione ecologica? Una strada sensata per affrontare i nodi della nostra epoca, da percorrere combinando partecipazione e conflitto “passo dopo passo”, sostenendo occupazione, reddito, inclusione, sostenibilità, salute, convivenza e salvaguardia del patrimonio professionale e impiantistico del tessuto produttivo. E’ innanzitutto un confronto culturale – da condurre giorno per giorno, misurandosi con i problemi della vita di ciascuno – che va tradotto in parole semplici, che devono tornare a circolare come buon senso diffuso.

Per questo occorre aprirsi di più alle variegate componenti del tessuto sociale. La società italiana è contrassegnata da una molteplicità di iniziative che non ha il pari in Europa: a parte i partitini (solo quelli comunisti sono più di dieci, molti dei quali divisi in correnti e frazioni. Troppa grazia!) e i sindacati di base (anch’essi in serrata competizione tra loro, ma con un proprio radicamento sociale) ecco ovunque comitati e associazioni ambientaliste, civiche, culturali, organizzazioni di migranti, circoli ricreativi e sportivi socialmente impegnati, movimenti per la casa e occupazioni di edifici pubblici e privati, reti di studenti, di insegnanti, di ricercatori, di precari, di medici e infermieri, di contadini, liste civiche, Rsu e la loro rete contro la legge Fornero, amministrazioni di comuni virtuosi, Gas e Des, cooperative sociali, comunità cristiane di base e persino parrocchie, centri sociali, riviste ed emittenti libere, associazioni femministe, ecc. Non c’è un “prato verde”, ma una miriade di entità che hanno identità, storie ed elaborazioni proprie: spesso molto sviluppate. Come rapportarsi nei confronti di tutte queste realtà per formare con esse una “coalizione sociale”? Si possono ignorare? Certamente no. Si possono inglobare? Neanche. Si pensa forse di reclutarne i membri senza fare i conti con differenze e divergenze che le hanno tenute lontane dall’Altra Europa? Sarebbe vano e arrogante. Con ciascuna di queste entità – per lo più organizzazioni locali, diverse da un luogo all’altro – occorre affrontare un confronto alla pari, che metta in discussione convinzioni, elaborazioni e pratiche di entrambe le parti, puntando a promuovere iniziative comuni sui temi che già ci uniscono. La piazza del 25 ottobre ha certamente messo in evidenza un popolo alla ricerca di una propria rappresentanza politica; ma è una ruolo che non si conquista esibendo solo programmi generali, bensì pezzo per pezzo, attraverso iniziative comuni con ciascuna delle sue articolazioni: un lavorìo che ha poco a che fare con le dispute o gli accordi – senza niente togliere alla loro importanza – con le dirigenze dei partiti che hanno sostenuto o che ancora sostengono il progetto dell’Altra Europa.