Scriveranno di «lunga marcia», di «cammino della speranza» e di «fuga per la libertà», ma nessuna mitologia può descrivere quello che accade. A piedi, da soli, sulle proprie gambe s’incamminano in migliaia i rifugiati; gli stessi che già hanno attraversato i confini riscrivendo la triste geografia del Vecchio Continente passando il muro di razza ungherese, quello della nostra coscienza sporca.

Mentre un vertice Ue richiama l’altro e nulla accade, a piedi si incamminano per sfuggire a internamenti e fili spinati, a nuovi universi concentrazionari. Via dall’Ungheria che li ha umiliati, beffati e deportati, mentre Orbán dichiara lo stato d’emergenza. E mentre il cuore d’Europa, da Praga, rifiuta ogni accoglienza. Da un summit all’altro l’Europa, appesa ad una moneta, conferma il suo vuoto politico e sociale. Resta solo il paradigma siriano di Angela Merkel. Ma che ne sarà degli «altri» disperati?

Ma non doveva, la foto del piccolo Aylan Kurdi e la sua morte, cambiare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: accoglieteci o i colpevoli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano che ha gridato: «Fermate la guerra e torniamo in Siria». Inequivocabili. E invece l’«innocente» Pentagono avverte che la foto di Aylan dovrebbe persuadere (come per Sarajevo?) a farne un’altra: dove già si combatte, come in Libia o in Siria. Lì dove Pentagono ed Europa hanno istruito quattro ani fa la guerra che ha innescato la spirale stragi, jihadismo, profughi. Il nuovo sentiero dei disperati: dice che la misura delle guerre sulla pelle altrui è colma.