Un public advocate di Brooklyn potrebbe essere il prossimo sindaco di New York. A fine luglio, Bill de Blasio era al quarto posto nel fitto gruppo di candidati democratici che aspiravano alla poltrona di Michael Bloomberg. In testa ai sondaggi, allora, si alternavano la speaker del consiglio comunale Christine Quinn e l’ex deputato Anthony Weiner, vibrante promessa del partito, bandito da Washington un paio di anni fa causa i tweet erotico-narcisisti che inviava a perfette sconosciute sedotte dal suo fervore liberal. Nelle ultime settimane, però, il buon rapporto che Quinn aveva coltivato negli anni con Bloomberg le si è ritorto contro come un boomerang (non sono bastati a salvarla, il fatto che sarebbe stata il primo candidato donna e gay a presiedere il municipio, né i micidiali messaggi telefonici con cui sua moglie martellava l’elettorato). Da parte sua, Weiner si è autoimmolato in una nuvola di sulfureo ridicolo quando, nonostante un’elaborata mise en scène della riabilitazione, è venuto alla luce che la passione per diffondere messaggini a luci rosse (grazie a lui la parola sexting è diventata di uso corrente) non gli era passata per nulla.
Quindi, nelle primarie di martedì, è stato lo squisitamente dickensiano “racconto di due città’” dell’italoamericano de Blasio a conquistare l’immaginazione dei votanti democratici, insieme all’afro di suo figlio Dante, gettonatissima su You Tube persino in Texas, grazie a uno spot elettorale girato nella cucina di un vicino di casa.
Con il 42% dei voti, ma ancora qualche migliaio di schede cartacee da contare, non è ancora del tutto certo se de Blasio si manterrà oltre la soglia del 40% che eviterebbe un ballottaggio – il quel caso il suo avversario sarebbe l’ex city comptroller (è il responsabile della verifica della solidità finanziaria della città) Bill Thompson, che nelle primarie di martedì ha totalizzato un supporto pari a circa al 25% .
Ma è interessante notare che sia stato proprio il candidato più liberal, e quello il cui messaggio si oppone in modo più netto alla continuità con i tre mandati di Bloomberg, a battere gli avversari. Cinquantadue anni, nato a New York, cresciuto in Massachusetts (dalla famiglia di sua madre, di cui porta il nome, e che viene dai dintorni di Benevento), con alle spalle studi di politica internazionale alla New York University e alla Columbia, de Blasio ha trascorso gli ultimi tre anni alla direzione dell’ufficio che si occupa della tutela degli elettori presso l’amministrazione cittadina. Sua moglie, Chirlane McCray, è una poetessa afroamericana che, prima di conoscerlo e sposarlo, era dichiaratamente lesbica. Oltre a Dante, ha una figlia, Chiara, teen ager anche lei.
La diseguaglianza tra i ricchi e i poveri (il racconto di due città, di cui parla nei comizi) è stato uno dei temi forti della sua campagna elettorale, che promette nuova attenzione ai bisogni dei poveri e della middle class, offuscati dall’autocrazia bloomberghiana più in sync con i super- ricchi («sarebbe fantastico per New York, se potessimo convincere tutti miliardari russi a traslocare qui, perché è da quella classe sociale che arrivano gli introiti per mantenere tutti gli altri», ha dichiarato solo l’altro giorno a un settimanale l’irreprensibile sindaco).
In più, una piattaforma populista a base di nuovi investimenti in posti di lavoro, abitazioni a basso costo ed educazione, uniti a una forte critica delle pratiche iperaggressive del dipartimento di polizia, e del suo capo Raymond Kelly, la cui politica di fermi/perquisizioni a tappeto (stop and frisk) è stata recentemente messa sotto monitoraggio da una giudice federale. Le vittime di questi fermi ingiustificati della polizia (contro cui è schieratissimo anche l’afroamericano Thompson) sono per la stragrande maggioranza neri e latinos. Oltre alla famiglia allegramente multiratial, la sua opposizione allo stop and frisk, e la promessa di rimpiazzare Kelly, hanno portato a de Blasio anche l’attenzione delle minoranze. In base agli exit poll di martedì, il public advocateaveva forti margini di vantaggio non solo presso l’elettorato bianco, ma anche quello ispanico ed era a pari a Thompson per quanto riguarda quello afroamericano. Anche la maggioranza di donne e gay ha preferito de Blasio –sia a Thompson che a Quinn. E il voto sembra distribuirsi in modo abbastanza equilibrato in fasce di ceto economico diverse tra di loro.
Curioso invece, dato il taglio della campagna di de Blasio (che Bloomberg ha maldestramente accusato di «razzismo» per la presenza vistosa della sua famiglia in comizi e spot), il fatto che lo abbiano preferito agli altri – e più o meno in equa parte – sia votanti che hanno un parere negativo sul sindaco uscente sia quelli che hanno un parere positivo.
È una contraddizione che la dice molto lunga su New York dopo dodici anni di Michael Bloomberg. Eletto con un margine dello 0.7 di voti, nel pieno dello sgomento che ha seguito l’11 settembre, Bloomberg è arrivato al municipio nel gennaio del 2002, un Ceo plurimiliardario («socialmente progressista, fiscalmente conservatore», si definisce lui), ex repubblicano adesso indipendente, eletto per arginare un passivo del bilancio di 5 miliardi. Riconfermato senza grossi problemi quattro anni dopo, agli albori del collasso finanziario del 2008, è riuscito a far indire un referendum straordinario che gli ha permesso di ricandidarsi e governare per un altro mandato (il limite è di due. Quinn fu una sua alleata in quello che la città visse come un coup), durante il quale ha anche covato l’ipotesi di una corsa alla presidenza. Sono stati dodici anni di regno incontrastato: data la sua straordiaria ricchezza personale, che ha liberamente usato per avanzare il suo programma, Bloomberg ha tenuto le redini della città senza aver bisogno di preoccuparsi di alcuna ripercussione politica, operando secondo una variazione originale della teoria (tra Reagan e Romney) che il benessere dell’1% determina quello del 99% («Se si pensa a New York come un business, non è Wal-Mart. Ma un prodotto alto, forse persino di lusso», dichiarò nel 2003).
Ma anche, e va sottolineato perché è qui che Bloomberg si differenzia sia da Reagan che da Romney, governando secondo una serie di convinzioni personali che fanno della New York del 2013 non solo una città più ricca e sicura (l’omicidio è sceso da 35% rispetto al 2001, lo stupro del 27%, la rapina del 29% – il sindaco è un paladino accesissimo del controllo delle armi a livello nazionale ), ma anche più verde (800 acri in più di parco), meno inquinata (fu clamoroso a inizio del prio mandato, il suo bando al fumo nei ristoranti) e che attrae un numero di turisti e di residenti sempre maggiore. Abituale frequentatore dei salotti dell’elite democratica, Bloomberg ha donato milioni alle istituzioni culturali della città ma tagliato la spesa pubblica della cultura. La “sua” New York vive il paradosso in cui coesistono chilometri e chilometri di corsie ciclabili in cui saettano smaglianti citibikes (è il programa di bici a prestito sponsorizzato dalla Citibank) e una metropolitana fatiscente o degli aereoporti impresentabili; i nuovi, bellissimi, parchi lungo I fiumi si contrappongono ad esempi di speculazione edilizia di bruttezza rara. De Blasio ha definite «di superficie» gran parte delle migliorie di Bloomberg ma, diversamente da quella di Giuliani, la sua politica della quality of life ha lasciato segni enormi.
Sotto di lui il 37% del piano regolatore della città ha subito delle modifiche, basterebbe quello –nel bene e nel male- per lasciare un’impronta indelebile. Dalla mossa con cui, poco dopo essere stato eletto, ha messo il dipartimento dell’educazione sotto il controllo del municipio a quella in cui ha cercato di proibire la vendita di quantità extra large di bibite gasate, Bloomberg ha scelto e deciso fregandosene quasi sempre altamente dell’opinione pubblica, con momenti di ottusità abissale come quando, dopo Sandy, voleva a tutti costi confermare la maratona invece di mandare I generatori elettrici a Staten Island (è stato uno dei suoi rarissimi dietrofront). L’impressione, in questi anni, era spesso quella di essere trattatti come degli impiegati e/o dei bambini che andavano salvaguardati da stessi. Ci ha “protetti” dagli empasse quotidiani della schermaglia politica ma, allo stesso tempo, scoraggiati da qualsiasi tipo di partcipazione politica alla vita della città; a un ideale di valori condivisi. Per quello l’immagine anti-tecnocratica, non necessariamente solo pragmatica, ma invece inclusiva, offerta da de Blasio sembra così allettante.